mercoledì 15 dicembre 2010

La percezione della circostanza


La percezione della circostanza, oltre a essere una bella espressione, è una banale, banalissima regola di buona educazione che ci hanno insegnato da piccoli nei primi pomeriggi in cui si aveva la straordinaria opportunità di annoiarsi ascoltando le chiacchiere dei grandi mentre prendevano un tè il sabato pomeriggio. La circostanza era il tè, per l’appunto, e la percezione invece era un solo ordine ricevuto: “state zitti e ascoltate!”. Tutto qui. Crescendo ci si è sforzati, non tutti in verità, di applicare quell’ordine a un modo di comportarsi “opportuno” rispetto a una circostanza qualsiasi che, per fortuna, non è più solo quella di un tè tra vecchie zie. E quindi, questo piccolo atto di coscienza, è ormai da considerarsi un esercizio sopraffino destinato solo alle menti più intelligenti del nostro genere, che sarebbe quello umano. Dico così perché personalmente non riesco a capacitarmi di come ancora esista qualcuno che passati i 40 anni da un pezzo, riesce a
interromperti mentre stai parlando al telefono, magari concitatamente, e pur avendo visto benissimo che stai facendo un’altra cosa, di una certa importanza per giunta, non esita a parlarti sopra di altri argomenti. La furia ci autorizza a sbranarlo all’istante: “ma non vedi che sono al telefono? SPARISCI!” Oppure: stai litigando con la tua ragazza, non chiedetemi perché, ovviamente sempre per una stupidaggine, e addirittura per strada, e se stai litigando per strada, non si sa come mai, stai sempre litigando in un modo esagerato, eclatante: tutti si ricordano di quella coppia che urlava a Via Tagliamento, perché poi mica siamo a New York, dove non ti si fila nessuno, no, siamo a Roma, dove non ti dico che si partecipa, ma comunque ci si sente autorizzati a salutare uno dei due in un momento in cui sarebbe meglio fare finta di niente e proseguire oltre. No! Si saluta “Ciao” magari con un sorrisino sotto. E uno come dovrebbe rispondere? “CIAO!” urlando, con un sottotitolo muto: “MUORI!”.
Oppure, siamo in pizzeria, tavolata assurda e lunghissima, il locale è pieno, i decibel sono impennati cone nemmeno l’auditel a Sanremo, i camerieri faticano a prendere la comanda di tutti quelli che ancora non sanno ordinare una pizza al tavolo e chiedono il menù, ci si perde tra le birre, le coche, le crocchette, i supplì, i calzoni, la qualunque. Entra un amico tuo che vede che ti stai dando da fare per aiutare il cameriere e anche i tuoi presunti amici al tavolo districandoti nei riepiloghi: “allora, ragazzi, dicevamo 4 margherite, 2 col prosciutto, una senza pomodoro, poi 3 focacce, 9 birre, 4 bottiglie di minerale, 2 lisce e 2 gassate, come dici tesoro? tu col basilico?”. Questo matto arriva e pur non riuscendo a darti la mano perché è pure lontano, te la porge comunque, e non ti molla mai un attimo con lo sguardo, facendoti sentire in imbarazzo perché sembra che non lo vuoi salutare. In realtà NON PUOI, tu vorresti, MA NON PUOI! E cosa ti dice? “Ciao, è una vita che non ci vediamo!”. La risposta dovrebbe essere una sola: “fosse per me, può essere anche l’ultima! Una margherita, grazie!”

lunedì 13 dicembre 2010

Pensieri sotto l'albero


E siccome anche quest’anno è arrivata l’Immacolata, ecco che abbiamo compiuto nuovamente quel gesto che da bambini ci piaceva tanto e adesso è diventato uno strazio: l’albero! Ma non farlo porta male, diciamolo a voce alta: a Natale una casa senza l’albero è una tristezza infinita. E quindi abbiamo arraffato una scala, siamo saliti sul palchettone per tirare giù quei due pezzi di rayon verde smeraldo per montarlo in salotto, vicino a una finestra (così da fuori chi guarda dalla strada rosica che io ho fatto l’albero e tu no) piegandosi sulle ginocchia per salvaguardare l’ernia (L5-S1). Ma quando ci si ritrova con quei bracci di fil di ferro ricoperti di muschio finto a rifare quei gesti al contrario di appena un anno fa (era il 7 gennaio), si pensa all’utilità della cosa. Il pensiero vola via alle implicazioni annuali di ogni Natale: “i regali, oddìo, quello alla suocera: il caffè, come mai a un certo punto della vita alle suocere si regala il caffè? Forse nella speranza che ci rimangano su una tazzina, per colpa della pressione? Ma poi al funerale gli sguardi pesanti: -se non glielo regalavi, forse oggi era ancora qui-. I regali dei nipoti, non gli piace mai niente, come gli fai un giochino già ce l’hanno, per forza, lo scaricano da internet, allora gli regalo un computer, ma che so’ il padre? Ci pensasse il padre, no? I regali ai figli, secondo me un bell’assegno e vedi come sono contenti, ma è freddo, impersonale, quelli se lo sparano in vacanza a Sharm, ma adesso ci sono gli squali, allora un buono su iTunes, così si scarica un film e se lo vede, al limite un libro, che titolo? “Guerra e Pace”, ma se si deve ancora leggere “I ragazzi della Via Paal”. Che pizza... ma una volta com’era il Natale, il mio Natale da piccolo?”. Insomma sono questi i pensieri mentre rimonti quell’albero. Ma improvvisamente nel tuo ipotalamo si ode uno strano scricchiolio, una porta con un brutto chiavistello arrugginito si apre cigolando brutti presentimenti. Butti uno sguardo distratto ma incuriosito: chi c’è là dentro? È tuo padre, è giovane, parla sottovoce a tua madre, “Scct! Fai piano, se no ci sentono!”. Tua madre gli regge una scala e lui piano piano la sale per andare a prendere sul palchettone, un proiettore super 8, che guarda caso avevi chiesto in regalo proprio a Babbo Natale, e una bambola per tua sorella. Tu sei piccolo e ancora non lo sai, ma stai per diventare grande con un dolore e forse una fierezza che non avrai mai più nella tua vita. Attraverso il buco della serratura della tua camera da letto HAI VISTO TUTTO! Ti giri verso tua sorella e le dici: “Ma che, hai chiesto una bambola a Babbo Natale?”. E lei: “Sì, gli ho scritto la letterina!”. E tu, trionfante, starai per risponderle, proprio quando questo ricordo viene interrotto oggi, quarant’anni dopo, da tuo nipote che ti vede chino su quell’albero di plastica mentre piangi e ti sente urlare tra le lacrime una frase, questa: “Babbo Natale non esiste!”.

PS: la foto, come non accadeva da tempo, non c'entra niente...

lunedì 6 dicembre 2010

In macchina con Mario


Nel 1986 Mario Monicelli apre la sportello posteriore di una Golf GLD nera. Accanto a lui Suso Cecchi D’Amico. Seduta davanti sua nipote Margherita e alla guida il sottoscritto. Quell’automobile quindi, stava trasportando due colonne del cinema italiano in compagnia di due ragazzi di vent’anni, di ritorno da Frascati dove erano appena terminate le riprese di “Oci Ciornie” diretto da Nikita Michalkov e prodotto da Silvia D’Amico. Quella sera, durante la festa di fine film, avevo conosciuto Marcello Mastroianni e mi ero pure scattato due foto con lui mentre mi chiedeva di guardare il fotografo, almeno durante lo scatto, e di non fissarlo come stavo facendo da un quarto d’ora. Avevo visto Suso Cecchi ballare un valzer con Nikita Michalkov ubriaco di secchi di vodka. Avevo visto Silvia D’Amico tirare un sospiro di sollievo sul genere “adesso ci manca il montaggio e poi finalmente è finita!”. Avevo chiesto a Silvana Mangano di spiegarmi come aveva dato quello schiaffone ad Alberto Sordi sul finale de ”L’Automobile” e lei mi aveva risposto: “aveva una paura Alberto e io gli ho detto ‘tranquillo’, invece gli ho dato una sberla! Hai visto, vero?”. Avevo sentito il direttore della fotografia Franco Di Giacomo descrivere come “Marcello”, su sua richiesta, aveva ripetuto un’inquadratura di un monologo dove ricordava, rideva, piangeva, tutto, con un riflesso bellissimo e irripetibile, perso per un problema che solo al cinema (“il pelo in macchina”) e lui l’aveva rifatto senza battere ciglio riprendendo la luce esattamente in quel punto! Insomma, avevo appena passato una serata così e ancora non avevo parlato di niente con Monicelli. Ma ecco l’occasione: l’avrei accompagnato in macchina, meglio di così... Comincia il viaggio e dopo le prime curve trovo il coraggio per cominciare la litania di complimenti che riguardava l’UNICO suo film che avevo visto, “Il Marchese del Grillo”, non accorgendomi che, parlando tanto di “come recitava Sordi tra le sue mani”, omettevo capolavori come “Un eroe dei nostri tempi”, o “La grande guerra”, o “Un borghese piccolo piccolo”. Ma non c’era niente da fare, ero eccitato come una falena impazzita alla luce di una lampada accesa di una sera d’estate, con quei due in macchina non ci credevo, urlavo di tutto, ma solo riguardo al Marchese del Grillo: sulle inquadrature dei palazzi, su Paolo Stoppa di come faceva bene il papa, degli altri attori, dei dialoghi, delle citazioni... Lui annuisce e sorride in silenzio. Ma al momento dei saluti chiudendo la porta mi dice: “Senta, mi fa molto piacere che le sia tanto piaciuto questo film e io la ringrazio molto per i complimenti, ma le vorrei ricordare che ne avrei diretti anche altri, anche con Alberto Sordi, tranquillo! Se li guardi, e grazie del passaggio!”.
Grazie a te, Mario.

lunedì 29 novembre 2010

Uno scovolino d'oro


È stato calcolato che in Italia ci sia almeno una pipa in 10 milioni di case e che un milione di persone abbia fumato almeno una volta quella pipa. I fumatori abituali di pipa in Italia oggi sono 10000. E basta. Sono lontani i tempi del Commissario Maigret, il mitico Gino Cervi (amato anche da Simenon), che la impugnava con l’autorevolezza di chi sapeva maneggiarla da padrone. Allora la pipa era molto amata e si vedeva in giro molto di più. Se ci fate caso sbuca in bocca a un passante nel filmato girato a Londra quando i Beatles cantavano sul tetto della Apple a Savile Row. La si portava addosso con molta disinvoltura, quasi come un accessorio. Oggi non è più così. Eppure quei 10000 fumatori abituali di pipa hanno un problema di cui solo adesso si stanno accorgendo. GLI SCOVOLINI SONO FINITI! Mi spiego meglio. Dal tabaccaio o dal negoziante di fiducia, il sabato pomeriggio si andava a prendere, oltre al tabacco da fumare una sera guardando le inchieste del Commissario Maigret su DVD, su una poltrona capitonnet in cuoio rustico e un plaid di cachemire blu, anche una bustina di scovolini, detti anche nettapipe. E’ quell’accessorio utilissimo al fumatore abituale di pipa, che serve a ripulirla da quell’acquerugiola e condensa che inevitabilmente si formano dentro il bocchino e il cannello. Se non si pulisce perbene, la pipa non va: puzza, s’intasa, un macello! Proprio come accadeva ai fucilieri del 1800, che dopo aver sparato pulivano, o meglio, scovolavano, da qui il nome appunto, con un attrezzo enorme la canna dell’arma da detriti, polvere da sparo, residui metallici e chissà che altro. Qual è quindi il dramma? Provate a comprarli! Si trovano, certo, ma non più quelli “buoni”. Questi si piegano non appena li infili nel bocchino e ti rimangono annodati al pollice e all’indice della mano destra, come un cartone animato. All’inizio ti viene da ridere, ma dopo due o tre tentativi, li butti tutti in aria urlando. Come mai? Due anni fa, a Torino, in Corso Svizzera 147, ha chiuso la VI.S.C.A. Dopo 40 anni, il suo proprietario, Pasquale Violi, aveva la schiena a pezzi, non si è creato un erede, e questo è il risultato. Il trucco degli scovolini della Visca risiedeva nel materiale: un doppio filino di acciaio armonico ricoperto di cotone la cui caratteristica era anche lo slogan: “mi fletto e non mi piego”. Alcuni, speciali, oltre al cotone che non perdeva pelucchi come quelli oggi in commercio, avevano anche un filo rosso intrecciato di nylon, leggermente abrasivo, puliva bene il cannello. Quelli di oggi sono di ferro dolce e non servono a niente. E questo è un altro pezzo d’Italia che se ne va, piccolo, piccolissimo, utile ad appena 10000 fumatori abituali di pipa. Però poi scopri che dava lavoro a un uomo che per una vita ci ha campato. Il costo di produzione di uno scovolino era di UN CENT e si vendevano in una busta da cinquanta per 3 €. Adesso sono contingentati nei negozi seri di pipe che li offrono con parsimonia ai loro clienti più affezionati. Quindi, amici del blog, riaprite quella fabbrica e diventate RICCHI!

lunedì 22 novembre 2010

Una foto di 40 anni fa


Questa foto di Bruce McBroom mostra 4 ragazzi che stavano per litigare da lì a poco ma ancora non lo sapevano. Mostra 4 ragazzi ormai ricchi con mogli, separazioni, divorzi, case, vacanze, droghe, tutto fatto, tutto visto, e adesso? Mostra 4 ragazzi che al primo bilancio della loro vita, quello dei trent'anni, quando chiunque al massimo potrebbe vantare un lavoro e forse una moglie, loro, guardandosi indietro, hanno potuto dire: “ho fatto i Beatles...”. Mostra 4 ragazzi che dopo i vestitini sartoriali di quella Londra irripetibile da film, hanno finalmente trovato il loro proprio modo di vestirsi. Mostra 4 ragazzi che hanno messo insieme 185 canzoni per tutti i gusti e tutti i momenti della vita. Che ne è di quei 4 ragazzi in quella foto, oggi? Due sono morti, uno per malattia e l’altro ammazzato, uno continua a scrivere musica, non sa fare altro, e l’altro a godersi la vita, non sa fare altro, tanto è vero che alla domanda “è contento di sbarcare su iTunes?” ha risposto “sì, almeno così non mi chiederanno più quando sarà!”. Ecco spiegato come mai quella foto di oltre 40 anni fa, oggi ha rifatto il giro del mondo annunciando che quelle sensazioni provate all’epoca con addosso una maglietta Fruit of the Loom, senza casco, in due su una sella da 20 centimetri quadrati del “Ciao”, senza parabrezza, con la pioggia a bagnarci e le cuffie del walkman nelle orecchie una per te e una per me, sono adesso e finalmente (dopo 10 anni di cartacce legali) sul negozio di musica senza commessi (che non sanno nemmeno come si scrive “Bitolz”) più bello del mondo: iTunes. E noi cosa dobbiamo fare? Ricomprare tutto un’altra volta? Li abbiamo comprati su vari supporti, il vinile degli album, quello dei 45 giri, poi la plastica luminescente dei cd, (“che fai, non li compri? Non sai come si sentono: da urlo!”). E proprio da cd li abbiamo già trasferiti sul Mac. E se non lo avete ancora fatto, cosa aspettate? Stanno lì in libreria tutti belli pronti! Ecco perché questa bella notizia in realtà serve solo a farci diventare eroi agli occhi di chi ancora non li ha mai bazzicati abbastanza: alcuni ventenni attuali che potranno finalmente capire che la sigla di “Stranamore” in realtà era stata scritta dai Beatles per la prima trasmissione televisiva in diretta in Eurovisione nel 1967, e non per un programma di riconciliazioni sentimentali! Ecco quindi che per magia qualche “ragazzo” nel senso strettamente cronologico del termine, si avvicinerà avvertendo da lontano la stessa musica che lui ha nelle cuffie dell’iPod per scoprire che: primo, noi li abbiamo già tutti belli caricati da 10 anni; secondo, in realtà stiamo ascoltando l’originale in vinile sul nostro giradischi cercando di non piangere per non rovinare la copertina di “Abbey Road” e ci siamo anche stati per farci la foto sulle strisce; terzo, osserverà che le nostre canzoni più ascoltate sul nostro iPod sono proprio le più scaricate da pochi giorni in tutto il mondo: “Let it be”, “Yesterday” e “Hey Jude”.
Davvero? Maddài!

venerdì 19 novembre 2010

Buon riposo


Il riposino pomeridiano che tutti i medici ormai consigliano, “la pennica” come la si chiama a Roma, è, ovviamente un lusso. La regola sarebbe quella di fermarsi una ventina di minuti al massimo, dopo pranzo, tutti i giorni. Ma spesso a quell’ora si è in palestra a smaltire gli ossibuchi con i porcini di stagione della sera prima. Ma il sabato e la domenica no, sono salvi, e noi possiamo recuperare, anche sforando i 20 minuti richiesti, in quei lunghi pomeriggi liberi, magari fuori piove, con quell’atmosfera da sabato del villaggio che ancora oggi, dopo 180 anni da quell’agghiacciante pensiero di Leopardi, ci strugge. Per evitare spiacevoli incidenti ecco qualche piccola regola da osservare. Primo: la luce. Chiudere tutto, persiane, tapparelle, serramenti, tutto. Altrimenti una volta che si cerca il sonno ci si deve mettere le mani davanti alla faccia per far finta che quel lucore rimasto non ci disturbi e che invece ci fa malissimo: quella fessura di luce che sembrava così piccola e ci aveva fatto pensare “tanto non la vedo”, non appena ci sdraiamo con il plaid, diventa una sciabolata abbagliante che nemmeno Guerre Stellari. Con le mani cerchiamo quindi di creare un sipario che protegga gli occhi, ma che ottiene solo di farci affogare in un mare di vapore acqueo prodotto dal nostro respiro facendoci ritrovare tutti bagnati. Seconda regola: andate in bagno PRIMA. Non succede niente allo sdraiamento, ma non appena avvertiamo quella sensazione di “botta”, di stordimento, di lento deliquio che precede la resa, ecco che uno spillo ci punge, e una vocina ti dice: “vai in bagno, sennò non ti rilassi...”. Un’altra, la nostra, risponde: “noo, ce la faccio... pochi secondi e passa”. E invece arriva un’altra puntura di spillo più forte, distraendoci dalla ricerca del sonno, e maledicendo chiunque, si scappa in bagno! Terza regola: plaid a una piazza regolamentare. DIFFIDATE DAI PILE, dalla copertina piccola di vostro figlio, dalla vestaglia che avete dimenticato sulla poltrona pensando “tanto non ho freddo...”. Infatti non appena cerchi te stesso nell’abbraccio di Morfeo, in realtà a casa entra una foca che applaude sarcasticamente alla nostra idea. La copertina, seguendo i nostri movimenti scomposti, lascia sempre una parte di noi fuori sicurezza e quindi il ghiaccio s’impadronisce del nostro corpo, dagli alluci alle gambe, fino al tronco, su fino alle braccia e alle mani, ormai ridotte a stalagmiti. Ci sveglieremo, nel caso avessimo dormito nonostante i tremori dovuti ai geloni, con un principio di raffreddore e una punta di mal di gola. Quarta regola: staccate cellulare e telefono di casa. Potrebbe chiamare solo un congiunto qualsiasi: nonna, zia, madre, cugino che non sentite da anni, il negozio Montblanc per dirvi che la penna è riparata eccetera... Salvador Dalì diceva che la punta massima del sonno la si ottiene dormendo con un cucchiaino d’argento in mano. Quando, al momento dell’abbiocco, il braccio farà cadere a terra il cucchiaino svegliandoci, il sonno finirà e noi, secondo lui, saremo belli riposati. Infatti Dalì è morto.

lunedì 8 novembre 2010

Una roccia su una panchina


Il rock è stato a Roma un pugno d’ore per presentare il dvd “The Promise” e farsi intervistare dai nostri Ernesto Assante e Gino Castaldo: Bruce Springsteen. Un uomo di 61 anni che se li porta come li porta il rock: bene, benissimo. Io so perché quest’uomo che imbraccia una chitarra come una donna vorrebbe essere ghermita da un uomo, un uomo solo, riesce ancora a farci credere nella vita e nelle sue quattro cose che vale la pena vivere.
A ottobre una storia e una foto hanno fatto il giro del mondo: una giovane coppia che passeggiava su una spiaggia del New Jersey vede un uomo, solo, che scruta il mare su una panchina. Il ragazzo lo riconosce: si tratta dell’unico uomo che sa contare fino a 4 in un modo che qualsiasi musicista, qualsiasi band, qualsiasi orchestra vorrebbe suonare con e per lui, anche gratis, per tutta la vita. Quell’uomo si chiama Bruce Springsteen ed è il rock, semplicemente. Il ragazzo si avvicina timidamente e lo saluta con un complimento. Bruce che fa? Gli dice “grazie, ciao” e basta? No! Quell’uomo, che ha una voce che esce dalla nostra memoria collettiva di speranze e aspettative, nota che quel ragazzo ha una chitarra a tracolla che gli pencola da una spalla. E quell’uomo gli chiede: “ragazzo, suonami qualcosa!”. Il ragazzo sta per morire ma risponde come un ragazzo che ha davanti il rock. E non si sa se balbettando o piangendo dalla commozione, riesce a formulare una risposta. Evidentemente qualcuno lassù lo amava in quel momento, tanto da fargli dire una cosa intelligente: “come posso io suonare la chitarra davanti a te che sei Springsteen?”. A quella domanda l’uomo che indossa i jeans come un uomo porta addosso la sua vita, rimane sospeso per un interminabile secondo in cui riflette che lui si sente SOLO un uomo e non una roccia, rock in inglese, delle nostre miserabili vite. Sente che quel ragazzo davanti a lui ha ragione, e quindi gli risponde: “Dammi la chitarra! Lei è la tua ragazza?” Il ragazzo risponde sì. L’uomo con la chitarra, il rock in persona, quindi comincia a suonare “Secret Garden” a quella coppia che ora è lì seduta accanto a lui, su una panchina sul lungomare del New Jersey, negli Stati Uniti d’America. Riescono a farsi una foto insieme. Adesso io dico tre cose. Primo: se quella ragazza non ha poi chiesto a quel ragazzo di sposarlo e che lei sarà sempre la sua donna, è matta. Secondo: a lui conviene, perché un’altra occasione come questa a lui non ricapiterà mai più con nessun’altra donna in tutta la sua vita. Terzo: adesso capiamo come mai un uomo come Bruce Springsteen è Bruce Springsteen. Perché ha dentro qualcosa che lo porta ancora oggi, a 61 anni, con niente più da dimostrare a nessuno sulla faccia di questo pianeta che continua a girare senza un motivo, in camicia a quadri, a guardare un tramonto a piedi nudi sulla spiaggia. Come diceva Conrad: “come faccio a spiegare a mia moglie che quando guardo fuori dalla finestra sto lavorando?”. Bruce ancora guarda fuori dalla finestra...

mercoledì 20 ottobre 2010

Per tigna


Cos’è la tigna? È quel sentimento per il quale (secondo una barzelletta degli anni 50 che circolava negli ambienti delle linee aeree in quella Roma in bianco e nero che vedeva esplodere i colori delle sue insegne solamente a Via Bissolati) il portabandiera di Napoleone, ferito in battaglia e persi tutti gli arti per portarla avanti a tutti i costi, prima di esalare l’ultimo respiro, ai suoi commilitoni che gli chiedevano annichiliti per cosa avesse mai fatto quell’impresa straordinaria, rispose, appunto “per tigna!”. È una molla di prim’ordine questa che ci fa muovere in direzioni senza la quale sarebbe impossibile: non esiste droga, alcool, fumo o che ne so che riescano quanto la tigna. Ed è per questo che mi è ricapitato tra le mani il mio vecchio stereo degli anni 80. Parliamo di un amplificatore Luxman L1 da 35 soli Watt per canale (in classe un compagno ne aveva uno da 60!), e di un piatto Technics SL-B2. So già che qualcuno storcerà il naso per questo ensemble (l’altro kit dell’epoca preferiva il piatto Thorens e l’amplificatore Marantz) ma proseguite e capirete: la tigna mi ha fatto quindi collegare delle inutilizzate e magnifiche casse ESB (non esistono più) con dei cavetti placcati in ORO. Tutto questo in un pomeriggio di scomodità inenarrabili, provate oggi a collegare i cavi delle casse sul retro di un amplificatore: il vostro ortopedico non ve lo perdonerà con le ernie che saltano come otturazioni da poco e i legamenti incrociati che chiedono pietà. Durante il montaggio sentirete dei cigolii e dei lamenti, vi guarederete in giro senza trovare nessuno, ma è il vostro corpo che geme come una caravella tra le onde dell’Atlantico! Una volta fatto tutto, sceglierete un disco (nel mio caso “The dark side of the moon”) e appoggerete con grazie la puntina sul disco, non avete sfiorato con questa gentilezza nemmeno le labbra del vostro primo bacio, e vi scaraventerete sul divano! Ma il volume è troppo alto. Non c’è il telecomando: non esisteva! Allora vi rialzerete per aggiustarlo, vai sul divano: troppo basso. Arialzati un’altra volta, adesso è giusto. E finalmente sentirete la musica come da anni non la sentivate più. E tra le mani un oggetto assurdo e meraviglioso: la copertina! 32 cm. per 32 cm., cioè 32 cm quadrati. Calpestabili! Ed era pure un doppio, quindi un’area di 2048 centimetri sotto le vostre mani rapaci. Bene. Vi ho raccontato tutto questo perché oggi che arrivano gli ebook, vorrei che fosse chiaro che NIENTE può sostituire il tatto, e meno male! E quindi la carta, queste pelle meravigliosa, non morirà mai e tutti gli iPad del mondo potranno dare una mano alle vendite agonizzanti dei libri e dei giornali, ma il piacere di sbattere le dita su una tastiera per scrivere o per sfogliare una pagina di un libro, come quello di sfilare un optical di Pucci da una schiena lunga un chilometro, non potranno restituirlo mai. E noi non dovremmo privarcene se non per un’emergenza. E comunque io non lo farò mai. Per tigna.

lunedì 18 ottobre 2010

Un colpo da manuale


Vorrei proprio sapere chi di noi non ha mai sognato di prendere parte un giorno a una rapina in banca. Non preoccupatevi: sto ovviamente parlando esclusivamente di quelle eleganti e piene di fascino che abbiamo visto sempre e solo al cinema, perché poi chi ce l’avrebbe mai il coraggio di farne una davvero? Figurati se ci mettiamo un passamontagna: mi metto paura da solo allo specchio per vedere come mi sta. Ma al cinema ci sono esempi illustri da sempre. Dal “Rapina a mano armata” di Stanley Kubrick, in una smagliante bianco e nero con quella valigetta piena di dollari che si apre all’aeroporto proprio quando ormai sembrava fatta, fino a “Il colpo” scritto e diretto David Mamet, con Gene Hackman che in una battuta rivelava una verità straordinaria, una regola di vita che tutti dovremmo avere sempre presente: “senza un piano B non mi allaccio nemmeno le scarpe!”. Oppure partendo da “Point Break” di Kathryn Bigelow con quell’assalto da parte dei banditi mascherati da Presidenti degli Stati Uniti d’America, per arrivare al top, “Colpo Grosso” con Frank Sinatra che ha poi ispirato, con tutto lo charme del caso, George Clooney e tutta la sua banda di guasconi del 2000, Brad Pitt e Matt Damon. Insomma, chi di noi non vorrebbe far parte di quella banda per poi “giocare” all’innamoramento con trabocchetto nella liaison con Julia Roberts? Chi di noi non vorrebbe chiamarsi per una notte soltanto, una notte “ultimate”, quella del colpo ovviamente, “Ocean”? Perché la rapina da sempre ha un fascino tutto suo: sei grande e grosso come un banca ma io che sono piccolo e furbo (e mi vesto pure bene) ti frego con la mia finissima intelligenza e me ne vado ai Caraibi con una gattina che mi ama!
È quindi evidente che almeno qualcuno di questi film è stato visto dai componenti della banda che a Milano nei giorni scorsi ha tentato un colpo alla Banca Intesa San Paolo di Via Binda, vestiti da donna con maschere di lattice, parrucche e occhialoni alla Jackie Kennedy. Ma come in film (uno diverso, un cartone animato) durante l’azione, a uno di loro squilla il cellulare. Chi sarà? “Buongiorno, sono un maresciallo qui fuori, che state a fa’?”. Fuori erano in 40 ad aspettarli. Ma i nostri non si sono persi d’animo, no: due hanno tentato di cambiarsi i costumi da donna con altri da uomo presi in prestito da una vecchia del palazzo, ma al portone una voce li ha bloccati: “seguiteci!”. Un altro è andato per tetti, niente da fare anche per lui! Uno aveva provato a tornare a casa prima di tutto. Fermato anch’esso con la valigia in mano. Ma non avevano pali? Certo. Arrestati! Prima di loro. Insomma in questo film stavolta ha vinto la polizia, o meglio il Commissario Basettoni! Essì, perché purtroppo siamo in un fumetto, non c’è niente da fare: alla fine mettila come ti pare, ma siamo sempre in Italia e quindi il film che si saranno visti la sera prima, invece di tutti quei titoli, sarà stato “I soliti ignoti”.

lunedì 11 ottobre 2010

Power of Love!


Questa foto l’avete già vista 25 anni fa! Dove eravate? Ve lo ricordo io: al cinema, con una ragazza che vi piaceva cui non riuscivate a prenderle la mano e con la scusa del popcorn ogni tanto vi accontentavate di sfiorarla. Il film era un capolavoro annunciato, “Ritorno al futuro” con Michael J. Fox, un attore con una carriera poi ballerina, diretto da Robert Zemeckis, un regista con una carriera poi fantastica e la colonna sonora era di “Huey Lewis and The News”, un gruppo carino, con una carriera poi disbanded. Vedemmo questa data per la prima volta nel 1985: sembrava tanto lontano, quel 6 luglio del 2010 raffigurato nel contachilometri di quella macchina del tempo, vero? E invece questo luglio appartiene già al passato! All'epoca pensavamo che nel 2010 finalmente saremmo diventati grandi, e invece eccoci qui ancora a giocare con questo blog. Chi ce lo avrebbe detto? Nessuno, perché noi del futuro non abbiamo un'idea precisa e soprattutto sbagliamo le previsioni, nel senso che siamo sempre in ritardo o certe volte spaventosamente in anticipo. Pensate solo al cinema: nel 1969 Stanley Kubrick ci presenta "2001: Odissea nello Spazio", con la trama di un computer che si ribella uccidendo l’equipaggio, ma quando mai? Per non parlare di “2010-l’anno del contatto”, a me non risulta! A questo punto era molto più onesto “Incontri ravvicinati del terzo tipo” di Steven Spielberg, che nel 1980 raccontava in un “istant-movie” di come stavano incontrandosi umani ed extraterrestri in America, sotto la Torre del Diavolo (e a me sarebbe tanto piaciuto!). Andiamo avanti: un altro titolo del 1981, "appena" 29 anni fa, ipotizzava che nel 1997, tutta la città di Manhattan sarebbe diventata un grande carcere criminale, era per l’appunto "1997: Fuga da New York". È andata così? No! Allora avevano ragione i ragazzi di "Un mercoledi da leoni" quando già nel 1974 dicevano: "il futuro è già passato e non ce ne siamo neanche accorti...". Eh sì, perché la vera caratteristica del futuro è che comunque arriva. Grazie al futuro un brutto ricordo può scomparire improvvisamente, semplicemente per merito del tempo galantuomo. Ma d’estate, quando fa caldo, non vediamo l’ora che torni l’autunno, e non appena arriva non facciamo in tempo a goderci un salamino, due castagne e un bicchiere di rosso che già non ne possiamo più della pioggia. E ricominciamo a invocare la primavera, per colpa del tempo cafone! Quindi, tornando a quelle previsioni sbagliate del luglio di 25 anni fa, vorrei tanto sapere che fine ha fatto quella ragazza che era al cinema con voi. I casi sono due: o quella mano non siete riusciti a prendergliela e quando siete usciti non l’avete più vista e le vostre strade si sono separate per sempre, oppure quando l’avete presa per un piccolissimo e tremante istante, lei vi ha guardato in un modo tale da far passare il futuro in un lampo e adesso è accanto a voi mentre leggete questo pezzo: è la donna della vostra vita, ma allora ancora non lo sapevate. “Power of Love!”

venerdì 8 ottobre 2010

Never tattoo


Quest’ultima Miss Italia, che aveva due carte da parati tatuate addosso mi ha ricordato che il tatuaggio ha la stessa caratteristica di un diamante: è per sempre. Meno bello, meno costoso, ma per sempre. Ma come tutte le cose eterne ha il difetto di non avere a disposizione il comando “annulla digitazione”, come su Word. In questo caso, si volesse mai tornare indietro, tocca fare visita al dermatologo. Li avete mai sentiti i loro racconti?
- Tu non sai come vengono qua a studio... (a Roma non si dice mai “in studio” ma “a studio”)
- ... disperate! In lacrime mi chiedono di cancellare il tatuaggio che si sono fatte di ritorno da Sharm: “levame sto’ pesce Ghana dalla spalla che non ne posso più!”
Cosa porti una ragazza, che un giorno diventerà nonna pure lei, a tatuarsi sulla spalla sinistra un pesce africano, simbolo della fertilità marina, è un mistero che non mi affascina, mi repelle. Non fosse altro che per l’impossibilità di poter dire “nacqui, vissi, e mi contraddissi” se non all’uscita “da studio”: quando una bella crosta gigante, più grossa del tatuaggio, ricorderà per mesi i colpi di LASER per cancellarla, per non parlare dell’anno che deve trascorrere senza prenderci il sole sopra con tutti che ti chiederanno:
- Ma che hai fatto?
- Niente, avevo una scena di caccia alla volpe tatuata e l’ho tolta perché m’aveva stufato!
Lo sapevate che a Disneyland non ti assumono se hai tatuaggi a bordo?
“Perché ricordano troppo i galeotti!” sono riusciti a rispondermi all’ufficio del personale di EuroDisney a Parigi. Esagerati? Però oggi come oggi ti precludi la possibilità di essere assunto a fare Cenerentola o lo Sceriffo di Nottingham per via di uno stupido segno zodiacale tatuato sul polso sotto l’orologio. È vero infatti che una volta il tatuaggio era esclusivo appannaggio di chi, salpato alla ricerca dell’America, in caso di bonaccia chiedeva al marinaio amico “Ahò, scrivimi un po’ MAMMA sul braccio, così non mi scordo che ce ne ho una!”. Oppure s’era fatto una “vacanza” di qualche annetto alla Cayenne e “per ricordo” (ma quando te lo scordi?) s’era scritto il numero della cella. Magari per giocarselo al Superenalotto all’uscita. Non voglio nemmeno parlare di chi, non fidandosi dei propri sentimenti, si affida al tatuaggio come prova d’amore eterno e si stampa
la lettera iniziale del nome dell’amato. Fino a quando è una I, passi: dopo Ignazio, ti puoi sempre mettere con uno che si chiama Elio, modificando la I con una E facilmente. Ma quando ti metti con Bruno poi dopo come fai se ti metti con Franco? Forse un metodo per far capire quanto è inutile scrivere sul corpo qualcosa (fatta eccezione per quelli tipo “I LOVE YOU” con la bic a scuola) potrebbe essere quello di tatuarsi un codice a barre sul collo che una volta letto dalla pistola della cassa automatica dell’Ikea potrebbe far capire quanto vale un tatuaggio: niente! E poi, sentite, la vogliamo dire tutta? Farsi un tatuaggio, con tutti quegli arnesi e quel dolore, equivale a un intervento chirurgico. Non vi fa paura?

mercoledì 6 ottobre 2010

Punti metallici


Amici di questo blog, una notizia per tutti voi. Vi informo che in QUESTO PRECISO MOMENTO ho finito i punti della cucitrice che avevo sin dai tempi dei primi acquisti in cartoleria per l’asilo! Sono passati 40 anni e quei punti mi facevano compagnia, meglio, mi seguivano, diciamola tutta: mi perseguitavano. Perché erano nel cassetto della cancelleria da 40 anni! Che vuol dire tutto questo? Stiamo parlando di tre scatolette, ormai quasi poltiglia, che contenevano 1000 punti l’una. Più svariati avanzi del cassetto della scrivania di mio padre, saranno stati in tutto quasi 4000 punti. In 40 anni non di ufficio, ma di solo “home-office”, e cioè utilizzati per ricevute di conti correnti postali (multe soprattutto) spillate ai relative verbali, ricevute di condominio, chiusure isteriche di buste formato A4 e A5, per incartare i documenti da portare al commercialista, insomma piccole attività. E quelli stavano sempre lì dentro a ridere del tempo che passavano in vita, la loro, mentre scorreva la mia!
Ecco quindi che oggi, finalmente, mi accingerò a comprare un’altra confezione, un nuovo pacchetto di 1000 punti marca Zenith, una scatoletta blu, ART. 130/E, prodotta a Voghera, dove è nato Valentino, The Last Emperor. Ma il mio pensiero al momento dell’acquisto andrà a Vittorio Gassman, che nella commedia “Camper”, accanto al figlio Alessandro, orripilava al pensiero che un pelouche gigante a forma di panda gli sarebbe sopravvissuto. Non aveva torto: quanti anni passeranno adesso, prima di finirli un’altra volta? Altri 40? Spero proprio di no, non vorrei ricordarmi utilizzando l’ultimo, chissà quando, che oggi tanti anni prima ne stavo scrivendo come una notizia! Ecco perché forse nemmeno li compro, preferisco chiederne qualche decina a voi amici che li ruberete in ufficio... Per non avere un'altra pietra miliare nel cassetto.
Aspetto i vostri regali, vi prego: non siate generosi!

lunedì 4 ottobre 2010

Charlie Brown 60


Quelle quattro facce che riesco a mettermi addosso per dare un’espressione qualsiasi ai miei sentimenti le devo ancora oggi a un fumetto che in questi giorni compie 60 anni: Charlie Brown. Chissà se Schulz, (morto già da dieci anni!) sapeva di mettere insieme una galleria di maschere che nel tempo ho affibbiato alle persone che incontravo nella mia vita, senza capire che in realtà le facevo indossare solo a me. Quando uscirono le strisce, non capivo come mai qualche ragazzo più grande mi dicesse “Ahò, ma chi sei? Charlie Brown?”, quando provavo a far alzare in cielo gli aquiloni della “Quercetti” (ve li ricordate? Si compravano dal giornalaio). Non sapevo che si riferisse a quel “soggetto” cui, più tardi, non volevo assomigliare nei suoi patetici tentativi di approccio alla “ragazzina dai capelli rossi” ma che invece era esattamente la mia fotocopia in bianco e nero nei rovinosi tentativi di avvicinamento alle ragazze a scuola. Quando invece ho cominciato a leggere le strisce sul giornale preferivo immedesimarmi in quello Snoopy seduto sul tetto della sua cuccia con la macchina da scrivere e quel suo stupendo incipit “Era una notte buia e tempestosa”, anche se poi quel manoscritto veniva puntualmente rifiutato dalle case editrici con un disprezzo che all’epoca amavo e che oggi invece m’impaurisce. E Lucy? Voglio conoscere una persona al mondo che l’abbia amata. Tutti noi la odiavamo per come trattava chiunque, ed eravamo vendicati dal solo Schroeder (cui mi sentivo comunque molto vicino) che grazie all’amore per la musica classica aveva tutto quello che gli serviva per poter risolvere con un’alzata di spalle tutte le provocazioni di quella maleducata! Di quella Lucy che in fin dei conti ci ritroviamo oggi ad essere quando un’amica ferita nei sentimenti ci chiede una strategia per uscire dall’impasse o una consolazione per uscire dal baratro nel quale è sprofondata dopo una delusione d’amore: un “aiuto psichiatrico” per il quale veniva richiesto un obolo di soli 5 cents e oggi non bastano 5 ore di una cena lunghissima. La verità è che Schulz ha trovato le parole per dire tutto, a tutti, a tutte le età. Ai compleanni quanti biglietti d’auguri già belli pronti abbiamo trovato in cartoleria? E chi ha mai ha avuto il coraggio di buttarli ritrovandoli in un cassetto anni dopo con le firme di tutti i compagni di classe nei regali cumulativi? Io me lo ricordo quel regalo, un poster di Snoopy che, nei panni del Barone Rosso, chiedeva in un finto tedesco “TOFE IST DER PIRRERIA?”. Me lo regalò una ragazza cui avevo presentato un mio amico che sarebbe poi diventato suo marito. Lei trovò il modo di ringraziarmi di quell’incontro che avevo organizzato, in una birreria appunto, con le parole di Snoopy e semplicemente firmandolo mi fece capire che da quel momento sarebbe stata sempre meno presente nella mia vita come amica e sempre più presente in quella del mio amico come fidanzata. E solo adesso mi accorgo che la sensazione che provai nel ricevere quel dono allora, è la stessa che provo ancora oggi a ripensarci. Mi sento sempre come lui: Charlie Brown.

martedì 28 settembre 2010

Istruzioni per non spararsi


Finalmente è arrivata la più bella stagione dell’anno: l’autunno! Peccato che il cambio di stagione, spesso porti al tentato suicidio, non fosse altro per evitare il cambio dei vestiti in previsione di un freddo che non arriverà prima di novembre ormai. Ecco quindi un manuale d’istruzioni per non spararsi. Cominciate a pulire tutte le vostre scarpe, non svogliatamente, ma come se doveste chiedere per farlo 20 euro a paio, quindi con la spazzola per togliere la polvere, poi con quella più piccola per applicare il lucido, quella per la prima lucidata e quella più soffice per la seconda, senza dimenticare il panno tecnico senza pelucchi per immacolarla definitivamente. E una è fatta. Adesso di corsa verso quelle camicie Brooks Brothers pinpoint slim fit, cui avete impedito alle macchie di essere tolte da mani non di assoluta fiducia. La camicia va presa come una Pietà di Michelangelo sfregiata da Laszlo Toth e portata con amore sul tavolo operatorio di marmo della cucina, staccate il telefono, il cellulare, il fax e il citofono. Prendete una lente d’ingrandimento, e con i guanti tamponate affettuosamente la macchia con tutti i prodotti possibili e immaginabili, costosi possibilmente: la macchia comincerà lentamente a svanire, ma alla fine noterete come non ci sarete riusciti affatto. Chiamate pure piangendo vostra madre: ci penserà lei, e già che ci siete chiedetele un appuntamento per consegnarvi le sue agendine di quando voi eravate piccoli per controllare date e rimedi utilizzati all’epoca contro le malattie esantematiche (morbillo, varicella, scarlattina, quarta malattia) che avevate contratto, prendete un moleskine nuovo e riscrivete tutto sopra. Vi servirà a rispondere trionfali “io già ce l’ho avuta!”, alle vostre amiche disperate perché a questo giro il talco mentolato tocca ai loro figli...
Visto che avete quegli scrigni in mano, le agendine, non restituiteli, e approfittatene per dare un ordine cronologico alle foto delle vacanze della vostra adolescenza, scrivendo definitivamente la data sul retro, e individuare dov’era quella staccionata vicino alla seggiovia: in un secondo momento le scannerizzerete e importandole con iPhoto su un Mac potrete mettere le bandierine dei “luoghi” e vedere i viaggi della vostra vita sulla mappa della vostra esistenza. Per capire se fosse il caso di tornarci.
Prendete tutti i libri che vi siete portati dietro dagli anni della vostra camera e divideteli per casa editrice, scoprirete di nuovo le vostre scelte di allora e non vi troverete tanto male: sbucherà qualche Hemingway e un Fitzgerald, vi sentirete orgogliosi di voi, del ragazzo che eravate e dell’uomo che forse ha smesso di leggere come allora: ricominciate adesso! Ma vi accorgerete che vi servono gli occhiali, vi deprimerete e penserete che forse è davvero arrivato il momento di farla finita! Ma ormai è diventato buio e alla fine di tutto questo riordinamento non lo farete: siete troppo stanchi.

martedì 21 settembre 2010

September


Ve lo dico subito che, anche se non sembra, siamo già a settembre, non facciamo finta di niente. Ve lo dico subito quello che vi aspetta da oggi, a parte la lavatrice che sta andando, per far finta che questo agosto non sia successo niente. Le vacanze? Da dimenticare subito, non è vita, è un’alterazione di quella che facciamo tutti i giorni per il resto dell’anno. Agosto in Italia è un mese che non conta niente, al massimo si muore, vedi i politici, che non appena mollano un attimo, l’adrenalina che li teneva in vita va in vacanza pure lei, e infatti muoiono, spesso giocando a scopone, sotto l’ombra di un fico o di un sicomoro “Ma come? Stava tanto bene!”. Quindi, archiviata la lavatrice del bianco e dei colorati, (che solo d’estate sono di più, come se non avessimo il coraggio di metterci una Lacoste in autunno, magari a maniche lunghe). Ve lo dico subito che le giornate vi sembreranno più corte, ma solamente la sera del rientro a casa quando aprirete le finestre del balcone (“aho, se so’ accorciate le giornate, ve’?). Ovviamente i gerani sono tutti secchi. Nella buca delle lettere, oltre a tutte le multe nella busta verde, troverete i depliant dei corsi d’inglese che vi faranno venire il rimorso di non averlo imparato definitivamente quando avevate il cervello libero da tutti i problemi di oggi, quando invece allora l’unico problema era quello di Monica che gli piaceva Marco e non voi. Quel cervello invece di pensare a quell’affaire (poi comunque finito male: Monica non la riconoscereste al supermercato e Marco è finito a fare l’animatore alla Valtur), era in realtà pronto ad accogliere tutte le frasi idiomatiche che adesso vi servirebbero come il pane. Comunque poco male: vi consolerete accompagnando i vostri figli al corso pomeridiano, o in piscina, o a basket, o a calcio, o a pianoforte, o a chitarra, o a violino, e lì magari incrocerete lo sguardo di una mamma che non avevate mai notato prima, e dovrete ricacciare indietro la frase perfetta per agganciarla, perché a casa vostra c’è la vostra, di moglie, che l’ha già sentita la frase già fatta da un altro che ha provato ad agganciarla, ma lei se ne è fregata perché non le va più di stare a sentire un altro uomo oltre voi. Lei ha già scelto e quindi zitti con quella nuova. Ve lo dico subito quindi che alla televisione sarete inondati da mille stupide collezioni da fare in edicola come i sassi del Guatemala, o le antiche miniature dei modelli Fiat epoca Romiti.
E a ottobre, ve lo dico subito: preparatevi con le cene dei compleanni degli amici vostri, tutte le agende scoppiano, sono tutti della bilancia, e che è? Toccherà fargli l’ennesimo libro o dvd, o non avendo tempo andrete all’enoteca mentre sta per chiudere implorando una boccia di champagne da fuori e ripiegando su una di prosecco una volta dentro. E poi a novembre ve lo dico subito, non farete in tempo a rimetterevi in forma con la palestra che cominceranno i nuovi weekend, con le prime nuove mangiate. E poi Natale, ve lo dico subito, tra appena 4 mesi è Natale, quell’albero sul palchettone lo dovete tirare giù e rifarlo un’altra volta, sempre all’Immacolata, e il 7 dicembre a Milano non si lavora, è Sant’Ambrogio! Insomma, abbiamo già fatto tutto, già visto, già sentito tutto. Ma è così, è settembre: l’uva è fatta e il fico pende!

PS: "Do you remember the 21st of September..."

martedì 7 settembre 2010

Se Stevie Wonder ha 60 anni


Se Stevie Wonder oggi ha 60 anni, noi quanti ne abbiamo? Mi chiedo questo durante il concerto che ha tenuto a Luglio in “fair Verona”. Vederlo lì con i capelli raccolti in trecce come nella copertina di “Hotter than July” mi ha fatto una certa impressione. Stava bene, dàì, la voce pazzesca, grande performance, tutto ok, fantastico! Però... mi è venuto un pensiero nel momento in cui ha presentato una ragazza del coro invitandola a cantare con lui una canzone. Sembrava una ragazza qualunque, fino a quando Stevie non ha detto: “lei è mia figlia Aisha...”. Ho capito quindi che stava parlando di “life is Aisha”, un verso di “Isn’t she lovely”, e ho pensato che io conosco i vagiti di quella ragazza a memoria, da quando il padre decise di inciderli proprio nell’introduzione di quella canzone, facendoci rosicare tutti per non essere noi destinatari di un pezzo così bello. E quindi eccola lì Aisha, ormai bella trentaquattrenne, ma pur sempre una figlia che canta attaccata alla schiena del padre, seduta sul sellino dello Yamaha a coda, oggi come allora direi, nel senso che “allora” era il 1976. Cioè lei a zero, e noi a 15 anni, quando le feste erano di pomeriggio e si ballava con la luce abbassata grazie alle persiane chiuse per non vergognarsi dei lenti con la ragazza prescelta per essere la vittima delle nostre braccia rapaci avvinghiate ai suoi fianchi. E quindi oggi, mentre padre e figlia cantano insieme, è impossibile non rivivere le sensazioni che provavamo all’epoca, come nei flash di un sogno che finisce bene. Ma quando il sogno finisce ti accorgi che nel frattempo sono passati trent’anni.
È la magia dell’immedesimazione. Pensate a questo: sapete quanti anni aveva Jane Fonda in “Sindrome Cinese”? Era un film del 1980, quindi ne aveva 42, e io, che all’epoca ne avevo 18, mi dicevo “mamma mia, ORMAI è proprio vecchia!”: oggi vorrei che QUELLA Jane Fonda fosse la madre dei miei figli! Jack Nicholson nel 1975, all’epoca di “Qualcuno volò sul nido del cuculo” aveva 38 anni e io pensavo “anch’io da grande voglio essere un ribelle come lui”. Oggi Nicholson, da vecchio, seduce ancora in “Tutto può succedere” e ci permette ancora di sognare che una donna bella come Diane Keaton possa cadere tra le nostre braccia quando saremo vecchi noi! Insomma gli artisti hanno questa grande capacità, che ignorano probabilmente: sono, loro malgrado, la nostra memoria storica, scattano la fotografia del momento vissuto, prestandoci la loro faccia, nella quale noi ci ritroviamo anche con piacere, solo che poi la vita è la nostra, non la loro! Succede per gli attori e succede soprattutto per i cantanti con le loro canzoni. Alla fine del concerto Stevie è uscito dal palco con Aisha che lo accompagnava, ma io ho visto solamente un uomo che andava a mangiare con la figlia e mi è venuta un’idea: stasera mi metto sul giradischi “Isn’t she lovely” e me la ballo, perché io oggi ho 15 anni! Grazie Stevie!

lunedì 12 luglio 2010

Imprinting di uno swing


È ovvio che per me Lelio Luttazzi sia stato essenzialmente un urlo dalla radiolina Sony con la foderina in finta pelletta traforata sull’altoparlante,
che ascoltavo rapito tornando velocemente da scuola per sentirlo mentre Nonna buttava la pasta. Solo più in là capii che quell’urlo apparteneva in realtà a un uomo che si vestiva in smoking mentre presentava in tv “Studio Uno”, insieme a Mina in tubino nero. Solo più in là capii che quell’uomo aveva scritto la canzone “Souvenir d’Italie” del film omonimo, che io guardavo solo perché c’era Alberto Sordi. Solo più in là capii che quell’uomo si metteva la gardenia sul revers dello smoking per omaggiare tale Cole Porter che nel frattempo avevo imparato ad apprezzare come autore preferito da Frank Sinatra e non solo. Insomma con Lelio Luttazzi e la sua carriera tutti i tasselli di quelli che sarebbero diventati i miei gusti sono andati al loro giusto posto, quello delle belle cose che rimangono fuori da tutte le stagioni: i classici. Quindi un uomo che ha fatto “imprinting” senza saperlo nelle menti di un “giovanotto matto”. E oggi che purtroppo Lelio non c’è più, che fine ha fatto quell’imprinting? Ha lasciato un’impronta, per l’appunto, che brilla ogni volta che metto il cd “Per Amore” che il suo agente amico batterista di sempre Roberto Podio gli ha prodotto. Tutte le canzoni scritte da Luttazzi sono state reinterpretate da Morandi, Mina, Fiorello, Arbore, De Sica, Dalla e Greg. L’ascolto non è più da “giovanotto matto”, ma da adulto (forse) cresciuto. Si capisce quindi che il tempo sta passando e una nuova coscienza affiora, quella critica, che riconosce la bontà assoluta di quei pezzi di classe facendoli riconoscere all’istante: un sorriso si stampa, un pensiero vola a quello che poteva essere, a quello che ancora potrà... insomma, ci si sente meglio! È merito di quell’imprinting che oggi pulsa là dove si celano le sensazioni più vere, la nostra vera e forse ancora nascosta personalità. Quando poi sono riuscito a conoscerlo alla radio da Fiorello, con Rosario che mi diceva “non urlargli nell’orecchio, al Maestro!” ho scoperto anche un uomo schivo che NON voleva firmarmi quel cd e che soltanto dopo mille richieste mi ha detto “va bene, ma senza il cognome...” e così Lelio mi ha dato, senza volerlo, un’altra lezione, quella di non “tirarsela” tanto, perché alla fine di che stiamo a parlare quando parliamo della vita? Un autografo è solo un pretesto di un ammiratore per stare vicino al suo artista, stavamo già chiacchierando, c’eravamo fatti una foto, basta! La caratteristica dell’imprinting è che si raccoglie tempo dopo dall’averlo ricevuto, ed è nel momento in cui si mette in atto ciò che è stato depositato, come un uovo anni prima, che si raccoglie un beneficio. Lelio Luttazzi, un uomo che ha fatto dei suoi personali ricordi uno stile di vita forse non avrebbe immaginato che un giorno sarebbero diventati una scuola di vita per altri che ci si sarebbero riconosciuti. Insomma, “Hit Parade”, quell’urlo che alla radio annunciava la “parata di successi” dei dischi in classifica, in realtà annunciava il successo della sua vita. Presso la nostra: quindi grazie Lelio. Swing!

lunedì 5 luglio 2010

Spie come noi


Ma davvero negli Stati Uniti hanno arrestato 11 agenti segreti russi, 11 spie, che chissà cosa stavano trafugando? Ma non è fantastico? Questo vuol dire che ricomincia la Guerra Fredda, e meno male: io mi sento più tranquillo, con i servizi segreti tornati in auge le guerre non scoppiano,
del resto non lo pensavamo da piccoli che per evitare le guerre tutti i capi di stato si sarebbero dovuti incontrare e giocarsela a Monopoli? Meglio quindi che mentre si prende appuntamento per il torneo, nel frattempo passi tutto a gente come 007 e al suo mondo fantastico, spesso un drink preso nel posto giusto al momento giusto, riesce a evitare le guerre calde, quelle vere.
Senza dimenticare che già soltanto l’atmosfera della Guerra Fredda è bellissima: siamo in un film, sempre in autunno, come mai? Per forza: è guerra fredda! E col freddo si è sempre più eleganti con i vestiti, per adeguarsi al circondario che prevede abeti verde smeraldo, pioggia lievissima che si adagia impalpabile su impermeabili Aquascutum of London (by appointment), i pantaloni in covercoat la respingono di loro, dai quali sbuca una pipa fumante Early Morning di Dunhill. Una pipa? Sembra una pipa, in realtà al suo interno si cela una microradio ricetrasmittente creata dalla Sony apposta per il nostro agente segreto. Ma ecco che da un cappottone pesante, un Burton tailored, spunta un foglietto A6 in carta ExtraStrong piegato in due sul quale, vergate sopra con inchiostro simpatico, ci sono scritte poche incomprensibili ma potentissime parole. Conoscerle vuol dire avere in mano TUTTO! Nemmeno Silvan riuscirebbe a passare così lestamente questo foglietto a quella donna che spunta improvvisamente dal nulla. Le donne, plurale femminile, proprio come “spie”! Creature di cui ci s’innamora all’istante solo per il taglio di capelli, se non sono ricoperte d’oro (in tutti i sensi), sono elegantissime e sensualissime nelle loro toilette di Capucci, e si concedono solo a chi sa prenderle per il verso giusto, facendogli trovare in camera una vasca da bagno ricolma di ghiaccio con due flutes di cristallo dentro. Accanto, completamente immersa, spunta il tappo dorato di una boccia di Dom Perignon del ’59, che aspetta di essere stappata da una mano maschia in primo piano. Il bello della guerra fredda è che prevede straordinarie manciate di noccioline, quelle grosse, tostate e salate, accompagnate da indimenticabili vodka-martini, mescolati non agitati, nelle hall degli alberghi dove si può parlare tra la gente per neutralizzare le eventuali cimici: insomma ci si ritrova in quella dolce vita in bianco e nero dove il lavoro vero, il lavoro sporco, sarebbe quello di redigere un rapporto con un bellissimo iPad cucito dentro la giacca: un colpo sull’invio e la mail criptata viaggia in tutto il mondo. Ma pare che non sia andata proprio così:
alla fine, dopo averli lasciati fare, l’FBI, il Federal Bureau of Investigation (che nome pazzesco!) li ha tanati. E chi erano queste spie? Undici piccoli russi che giocavano a fare gli americani in città che, un po’ maldestramente, si sono fatti beccare con il sorcio in bocca mentre in mutande provavano a spedire una mail fracica (perché poi, gratta gratta sotto al russo spunta sempre il cosacco). Non ci sono MacBook Air in questa storia, non ci sono motoscafi Riva “presi in prestito” per una commissione, ma quale James Bond, quale Money Penny, no ghiaccio, no Martini, no party... Ma comunque che importa? Va bene lo stesso: il gioco ricomincia. Evviva la Guerra Fredda: è più chic!

mercoledì 30 giugno 2010

Un anno senza Jacko

Cosa rimane di Michael Jackson dopo un anno che è morto? Ora che non sentiamo più notizie sulle sue personali follie, ma solo resoconti delle ultime 24 ore passate in vita, non ci resta altro che aspettare le cronache dalle udienze nel processo al suo “dottore”, per poi si spera mettere una bella pietra sopra tutta questa triste storia. Ma alla famiglia Jackson cosa rimane? Cosa rimane a quei figli Prince Michael, Paris e Blanket, intitolati come un film della Disney? Il più veloce ripianarsi dei buffi contratti in vita dal padre, tanto che molto probabilmente Neverland non verrà più venduta all’asta e potrà diventare il memorial che gli permetterà altri incassi pazzeschi di cui godranno appieno solo dopo aver compiuto 30 anni, e chissà se anche a quell’età saranno comunque in grado di decidere qualcosa. (Ovvio comunque che ci si va non appena apre!)
Cosa rimane alla madre ottantenne Katherine Jackson? Al momento portare in giro i nipotini distribuendo merendine prima negate (pare Fiesta Ferrero). Alla sua morte la consegna è quella di passarli alle amorevoli cure di Diana Ross... ma le madri? Boh! Cosa rimane quindi alle mogli di Michael? Ectoplasmi in prestito a un uomo senz’ombra saranno forse state liquidate da un avvocato con un assegnino e una preghiera: “sparite!”
Cosa rimane al padre Joseph Jackson, che lo riempiva di schiaffi fino a quando non s’imparava i passi di danza a memoria? Direi l’odio mondiale di tutti i fans di Michael. E qualche spiccio che la moglie gli regala dalla cresta che fa sulla spesa.
E ai fratelli? Dovrebbe bastare il fatto che i dischi dei Jackson Five hanno ricominciato a vendere e le royalties saranno senz’altro sufficienti a pagare gli psichiatri in grado di fargli accettare che il genio in casa era solo il piccolo Mike, che ora non c’è più, e che non potranno mai più fare un disco insieme. Del resto già dopo “Off the Wall” gli avevano chiesto per favore di fare un ultimo tour con loro, fatto quello, “adesso basta!”
E a noi poveri fans? Cosa rimane, a parte ovviamente i primi tre splendidi album? Rimetterli nel cd e spararli con le casse in salotto con un volume assurdo per far ricordare ai vicini che non solo Michael è morto ma noi abbiamo ancora 14 anni e ci piace la musica alta, è il giusto omaggio da offrire nel primo anniversario della scomparsa invece che sentirli solo nelle cuffie In-Ear dell’iPod. E per fortuna ci rimane anche il dvd “This Is It” che ci ha fatto vedere quello che ormai era Michael Jackson al netto della sua rovina: un uomo di 50 anni che cercava un riscatto per dimostrare con uno show quello che era. Uno showman e basta. Uno che ballava meglio di Fred Astaire e che cantava come se avesse ancora 5 anni.
Insomma rimane tutto questo. Non altro. E questo è tutto. This is it.

lunedì 21 giugno 2010

Vocabolario nascosto


Avete mai fatto caso al vocabolario nascosto? Non quello dei gesti, che compare regolarmente negli articoli da ombrellone, tipo “se si gratta il naso sta dicendo una bugia” , né quello del menù “dimmi cosa ordini e ti dirò chi sei”. No, qui si parla del vocabolario delle parole, quelle che si scelgono per dire, o meglio, per non dire una cosa. Fateci caso: esiste come una sorta di pudore per alcune parole che, se utilizzate, renderebbero tutto chiaro all’istante e invece non utilizzate nascondono una verità spesso amara. Facciamo qualche esempio. Se incontrate un amico e gli chiedete un aggiornamento sulla sua situazione lavorativa con un normale “com’è andato poi quell’incontro di lavoro di cui mi dicevi?” se vi risponderà “benino...”, non vi fidate: in realtà vuol dire malissimo. Che ci voleva a dire “insomma...”? Avremmo risposto con un gentile e consolatorio “mi dispiace, magari si fanno risentire loro, vedrai...” e la cosa finiva lì. Invece no, vocabolario nascosto e quindi bugia! Andiamo avanti. Telefonata per invitare un amico a cena, risposta: “No, stasera ho da fare, esco con una persona”. Una persona? Che vuol dire? Chiaro: se lo dice un uomo è una donna, se lo dice una donna, è un uomo. Ma non è assurdo? Tra l’altro se si trattasse SOLO di un’amica, lo diremmo subito: “No, stasera non posso, esco con un’amica mia” e finirebbe lì, se invece si usa la parola “persona” è già più losco, perché non me lo dici? Cosa nascondi? Una “persona”, cioè? Una che ti piace? Una tua amante? Uno dei servizi segreti? Ma per amore è quasi tutto lecito, anche una mossa patetica, come quella di far finta di spedire un sms per sbaglio all’ex e alla sua risposta cortese rispondere con un terribile “scusa mi ero sbagliato ma mi ha fatto piacere sentirti”: lei capirà che siete ancora pazzi di lei, come volevate in effetti...
Ci sono poi i discorsi che lasciano cadere lì una mezza verità, servono a darsi un tono: “ho sentito Barbagallo...”, in realtà vuol dire che l’hai chiamato tu, perché se ti avesse telefonato lui avresti detto “MI HA CHIAMATO Angelo Barbagallo!” che è ben diverso, è molto più potente, ma purtroppo non è così, la verità è un’altra: l’hai chiamato tu per sapere come stava e magari lui, alla fine della telefonata, prima dei saluti, ti ha sganciato un generico “vediamoci una volta” e basta, mica ti ha chiamato lui chiedendoti “quando vieni a cena?”. Gli avresti risposto urlando “STASERA!” e avresti chiuso subito il cellulare per non essere disturbato da nessuno, salvo poi richiamare tutti gli amici il giorno dopo dicendo “MI HA CHIAMATO ANGELO BARBAGALLO PER CHIEDERMI DI ANDARE A CENA DA LUI: VOLEVA PARLARMI!”.
Ma di tutte queste parole, ce ne è una che è valida tutto l’anno e che quindi si prende la medaglia della più falsa, anche se è quella che fa più tenerezza di tutte: “sto a dieta”.

lunedì 14 giugno 2010

Tifosi per caso


- Ma che stasera gioca l’Italia?
- Certo, ti aspetto da me: alle 7 comincia e poi ceniamo, va bene?
Ecco il dialogo che ci spetta nella recita personale iniziata venerdi 11 per un mese di repliche sul divano di casa degli amici. A parte il fatto che ogni volta che comincia un nuovo mondiale di calcio si pensa sempre e soltanto al fatto che sono passati già 4 anni! Di colpo così, non abbiamo fatto in tempo a riprendere la voce che già ci tocca urlare di nuovo per un gol.
Ma chi non ama il calcio, chi non segue una squadra tutto l’anno, incorre in una serie di strafalcioni che rischiano di mettere a dura prova la pazienza di chi invece di calcio, da spettatore, ci vive tutto l’anno. L’entusiasmo del neofita che solamente ogni 4 anni si ritrova nei panni del tifoso per caso, che ama l’azzurro della maglia e che ha in testa ancora quell’immagine dell’urlo disperatamente felice di Tardelli in Spagna nel 1982 (già trent’anni?) in ogni caso fa tenerezza, e chi riceve in casa adotta nei suoi confronti un’indulgenza che non saprebbe riservargli in una notte di campionato o di Champions. È per questo motivo che il padrone di casa tollera, almeno per le partite dell’Italia quel tifo sincero, infantile, disarmante, che confonde qualsiasi cosa, qualsiasi minima cognizione calcistica in una girandola di affermazioni sensa senso. Risultato? Vengono eruttate parole così, a casaccio, nomi di qualsiasi cosa abbia avuto a che fare con il calcio, da una bandierina del corner, fino a confondere i giocatori con quelli del quadriennio precedente. Ma è soprattutto con la citazione di nomi antichi che estratti dal cassetto della memoria recante la scritta dell’etichetta Dymo “mondiali” che le sinapsi si producono in un fritto misto che nemmeno a Ostia: “Valcareggi, carnitina, ma che c’entra? Ma adesso gli da una testata a Zidane? Chinaglia, che si chiamava Long John? Ma lui non ha giocato mai in nazionale, ma sì invece, che dici? No, perché lui mandò a quel paese l’allenatore Valchereggi, che lo allenava anche nella Lazio, no, quello era Maestrelli, ah già come lo stadio, no quello è il campo che gli hanno intitolato, ti stai zitto? Ma Totti adesso gli fa il cucchiaio? Wilson, sei sempre stato un bluff, c’era quella scritta a Vigna Clara, ma l’hanno cancellata da una vita! Ma Camoranesi è argentino, e gioca per l’Italia, perché? E Ciccio Cordova? Ammàzza! Venditti, Campioni del Mondo, Campioni del Mondo, Campioni del Mondo, Pizzul! No, Martellini, grazie Roma, Tardelli sta ancora con Stella Pende?”
Un inferno, e tollerarlo è la prova d’amore che i vostri amici ogni 4 anni vi riservano. Approfittate quindi dell’intervallo: quando arriva l’insalata di riso fredda, rimanete in compagnia delle mogli che non seguiranno il secondo tempo se non per correre a vedere il replay del gol! Ascoltare quello che si dicono le donne tra il primo e il secondo tempo è una grande scuola di vita! È soprattutto otterrete un altro invito per un’altra partita della Nazionale. Eh sì, perché, per un tempo almeno, di là in salotto, non vi avranno né visto, né sentito! E allora Forza Azzurri... lo diceva Pavarotti, a Italia 90. Già vent’anni?

martedì 8 giugno 2010

Compleanni sfortunati


Questa estate che non arriva (meno male) mi fa venire in mente che da questi giorni in poi comincia per una serie di persone un periodo abbastanza sfortunato: il festeggiamento dei loro compleanni.
Non si può organizzare niente dentro casa, non ti ci viene più nessuno (fa caldo), se arrivano, arrivano comunque tardi, perché hanno fatto l’aperitivo fuori e arrivano già ubriachi con 4 prosecchi gelati in corpo e senza regalo. Bisogna organizzare qualcosa di comodo e coinvolgente, altrimenti non vengono, l’interesse per il tuo compleanno non è sufficiente, anzi non gliene frega proprio niente, anzi è una noia. Ecco perché vanno organizzati pranzi domenicali fuori città, in ville con piscine, o parchi per far giocare i bambini (degli altri) e quando arriva la torta nessuno si ricorda che SAREBBE anche tuo compleanno eccetto i camerieri del catering, saranno soltanto loro a cantare: “tanti auguri a lei, tanti auguri a lei, tanti auguri dottore (nessuno sa come vi chiamate), tanti auguri a lei!” Il culmine del disinteresse lo toccano i nati a Ferragosto, per loro è come nascere a Natale, è uguale: nessuno se li fila. A Ferragosto ti tocca festeggiare con chi hai accanto secondo le vacanze che stai facendo: sul caicco, in parete, in canoa, sulla bici, ovunque, ma lontano da casa tua e dagli amici tuoi.
Chi sono questi poveracci che non riescono a festeggiare come si deve il loro compleanno? Sono i figli dei mesi invernali, per l’esattezza ottobre e novembre, con i loro primi freddi e i primi piatti conseguenti, le zuppe calde di legumi vari, i primi salamini affettati su quel bel tagliere di legno massiccio, con quel coltello Ikea 365+ appena comprato che lo taglia che è un piacere, quel novello appena stappato e quello sguardo malandrino che si accende al secondo sorso. Stiamo parlando delle prime domeniche dei primi fine settimana, quando attorno al tavolo della cucina di un casale rustico si ritrova un gruppo di amici vestiti da weekend, con jeans e camicie sportive, qualcuno azzarda un quadrettato in cotone pesante, qualcuno una flanellona bella spessa dai colori vivaci e una ragazza addirittura gli stivali alti perché è appena scesa dal cavallo noleggiato per l’occasione. Quattro chiacchiere, il fuoco acceso dai meno pigri, una bruschetta, una castagna, sottofondo regolamentare di Pat Metheny, insomma siamo dentro la pubblicità di un amaro. Quand’ecco, come per magia, sulla faccia di tutti si dipinge quello sguardo postprandiale da bovino felice, che prelude a quella pennica che senza saperlo si trasformerà in un morbido abbraccio nel quale sciogliersi come burro in compagnia della cavallerizza biondina. Da quel riposino ci si rialzerà con un felice segreto sconosciuto a tutti, che nove mesi più tardi, cioè oggi, si ritroverà da adulto ormai, a dover combattere per festeggiare alla meno peggio il giorno più brutto della sua vita: il suo compleanno!
Quindi, genitori che state pensando di fare un figlio, pensateci bene: da Novembre a Dicembre state fermi, andate al cinema, al ristorante, a giocare a carte, litigate, lasciatevi, fate qualcosa ma non fate figli. Tutti i Cancro e i Leone del futuro ve ne saranno grati.

lunedì 31 maggio 2010

Incontro con i futuri (?) suoceri


L’incontro a Teano in confronto non è niente. Perché l’emozione che si prova sul pianerottolo in attesa che la futura suocera apra la porta della casa dove trascorrerai tutte le future domeniche a pranzo della tua vita è qualcosa che non si dimentica più. Ma procediamo con ordine. Ricordiamoci che le apparenze NON ingannano, mai. Se sembra, è. Quindi non appena si apre quella porta tra te e la madre della tua fidanzata scorrerà uno sguardo di un attimo che nemmeno Rubbia, Zichichi, e Dulbecco saprebbero definire. In quell’attimo fuggente tutta la tua vita vissuta fin lì ti scorrerà davanti in bianco e nero e a colori in rigoroso ordine cronologico in un film che ancora non hai visto ma che la signora davanti a te invece conosce a memoria, così come la conosceva Sergio Leone di “C’era una volta in America” quando in 8 ore, inquadratura per inquadratura, la spiegò a Robert De Niro nel primo incontro. Quella signora vestita con un romeo e giulietta e un filo di perle, ha già visto come e quando sei nato, in quale clinica, che scuole hai frequentato, che lavoro hai fatto finora, se ti piace, se intendi cambiarlo, ma anche se sei felice, se sei triste, chi ha contato veramente per te nella vita. Lei GIA` lo sa! Non chiedermi come fa, non lo so. Non lo sa nessuno. Aspetta un attimo, non è finita: adesso la tua vita sta passando di nuovo, ma in ordine tematico: i tuoi genitori, i tuoi amici, tutti, anche quelli che non vedi più, tutte le ex, tutte, comprese quelle che ti hanno rovinato psicologicamente, comprese quelle che ancora ti vogliono bene e sono solo amiche, le tue vacanze, tutte, anche quelle che ti sono rimaste nel cuore e che invece secondo lei sono le peggiori. È su questo ordine tematico che la signora lì davanti adesso somiglia molto di più al colonnello nazista di “Bastardi senza gloria” che alla donna che dovrebbe consolarti con delle lasagnette al pesto che come le fa lei non le fa nessuno. Ora non ti rimane altro che guardare per un millisecondo un palo che sta lì di fianco da prima ma di cui ti accorgi solo adesso: sarebbe suo marito quel lampione triste con un pullover che non hai mai avuto il coraggio di indossare, sarebbe quindi anche il padre di quel fiorellino che sta ancora accanto a te con le pastarelle in mano. Come è possibile? Che sia nata da quel paralume? Eppure mentre pensi tutte queste cose e il film (interrotto sulla scritta “primo tempo” che non ti sembrava aver messo tu) sta rientrando nella scatola di latta che lo conteneva, quella donna ritorna nel suo completino celeste e MIRACOLO, il suo sguardo si scioglie come un formaggino “Mio” nella minestrina con le letterine. Certo, amico, tranquillo, è andata bene, sei tu il maschio che non ha mai avuto e che lei consolerà come un figlio che ritorna verso le amate sponde che aveva abbandonato per salpare verso gli orizzonti lontani della vita. Certo, amico, lei è il tuo porto, non più tempeste senza riparo, è fatta, e quei fiori, spero non gladioli, che hai portato in dono si trasformeranno all’istante nel giardino all’italiana del castello di Valentino.
Ma se invece quella faccia, che ti sembrava avesse abbozzato un sorriso di circostanza, si trasforma in un ghigno, dammi retta amico: scappa immediatamente e lasciali tutti lì sul pianerottolo con i gladioli: le pastarelle te le mangi col tassista!

mercoledì 26 maggio 2010

Edge of Eternity


Stamattina la doccia è durata meno, è stata più veloce, che hai? Ti sei vestito di corsa, hai fatto colazione al bar e oggi nemmeno il cornetto, hai preso la moto, la pioggia, sei arrivato in ufficio hai lavorato: telefonate, mail, sms, riunioni, internet, pausa pranzo, hai ricominciato fino alle 6, no, alle 7, no, alle 8. Palestra dài, ieri no, quindi oggi sì, doccia un’altra, ancora motorino, spesa al supermarket, casa, cena, un po’ di tele, no stasera non c’è niente. Su Sky? Niente, un dvd? Non ti va. Vai a letto. Sonno zero, un po’ d’internet, un’altra mail, forse skype, allora stasera leggi un libro, ma non trovi la concentrazione, ti fermi e pensi che le uniche facce che hai visto sono quelle del tragitto dal parcheggio del motorino al supermarket, ed erano tutte come la tua, con lo sguardo fisso ai loro pensieri, alla loro vita. Che è come la tua. E adesso, in questo momento, ti accorgi che non è stato solo oggi cosi, ma anche ieri e l’altro ieri e domani e forse anche dopodomani. Allora questa è la vita, amico: è la tua vita, e ci sei dentro.

PS: appropriato questo Stevie Wonder “Edge of Eternity”, no?

lunedì 24 maggio 2010

Uno notte al museo


Il furto al Museo di Arte Moderna di Parigi, mettila come ti pare, ma alla fine fa sempre simpatia. Di tutti i ladri, quello di opere d’arte, è comunque il più chic. Vediamo perché. Primo: non è violento. Qui ci si muove con destrezza, eleganza, le mani non impugnano armi ma bisturi Laguiole che volteggiando in un bagliore notturno liberano dalla cornice in palissandro tele segnate dal genio dell’uomo. Secondo: se ne intende. Non è che tu devi spiegargli con un disegno che vuoi il “Piccione coi piselli” di Picasso. O lo conosci o non lo conosci, non si sbaglia davanti a quadri simili tra loro (succede in arte moderna, per non parlare di quella contemporanea): immaginatevi se il committente di questo furto avesse spedito al museo Orazio e Gaspare, i due balordi della Carica dei 101. Terzo: è elegantissimo. Parliamo di un uomo molto leggero, agile, mai sovrappeso, che conduce uno stile di vita irreprensibile, le mani curate, un goccio di Eau Savage prima di uscire, la sua tuta nera è in cachemire fil a fil, i guanti di vitello, il mephisto che indossa è in goretex, il tutto nero notte. Nella vita deve essere uno di buone frequentazioni, educato, discreto, nessuno sa che lavoro fa, è scapolo, ama l’arte, ovviamente, e non tiene per sé alcuna refurtiva, gli bastano i cataloghi che gli regalano i committenti!
Terzo: è comprensivo. Capisce che chi si rivolge a lui è gente che non potendo permettersi un Braque sul caminetto del salotto, preferisce prenderselo al museo per colmare quel triste buco vuoto sul muro. È il sogno di tutti noi rispondere (come nel film “Il Boss e la Matricola”) a un amico che commenta l’ottima fattura della “copia” della Gioconda nel nostro salotto: “Veramente quello è l’originale, la copia è al Louvre!”.
Non siamo mica matti come Ryoei Saito che nel 1991 promise di volersi portare nella tomba “Il ritratto del Dottor Gachet” di Van Gogh da lui regolarmente acquistato per oltre 100 miliardi delle mai dimenticate lire.
Comunque oggi non vorrei essere nei panni del direttore del museo che sorge vicino al Trocadéro, dove abita Fanny Ardant per capirci. La patetica scusa “la ditta dell’antifurto non aveva il pezzo di ricambio...” fa il paio con la battuta del film. Ma sei pazzo? E non lo chiudi, se manca il “volumetrico”? Tanto è vero che al nostro Arsenio Lupin è bastato un sasso per il vetro (ah, manco blindati li hai messi, come ce li hanno tutti a casa propria, anche Fanny) e una cesoia per il lucchetto (manco fosse un armadietto della palestra) per entrare come un gatto siamese (quelli di Lilli e Il Vagabondo) e con 4 salti arraffare quelle tele in pochissimi minuti. Per il direttore incrociare gli sguardi del quartiere sarà sentirsi come Louis De Funes nel ruolo dell’ispettore Juve contro Fantomas. Vedete come tutto sembra un film? Tanto è vero che in queste storie è frequente il lieto fine. I capolavori rubati spesso vengono ritrovati per la gioia di tutti noi poveracci che facciamo la fila davanti i musei per andarli ad ammirare. E il più contento è proprio il ladro gentiluomo: davanti al furgone blindato che riporta la tela al museo, c’è un uomo che si accende una Gauloises, e dando una scossa alla copia dell’Equipe che si ritrova tra le mani, sorride sornione: “lo riprendo quando voglio...!”.

martedì 18 maggio 2010

La mappa dello stress


Tanti amici stanno compiendo 50 anni in questi giorni. Anche per questo si può dire che non sono più i 50 anni di una volta (ne parleremo più in là). Oggi no, non è così, e meno male! Perché oggi compiere 50 anni vuol dire in realtà farne 18. Adesso sì che siamo maggiorenni, possiamo votare e soprattutto possiamo guidare! A 50 anni possiamo mettere in pratica quel vecchio detto “se gioventù sapesse, se vecchiaia potesse...” Eccoci qui, siamo pronti! L’unica cosa da non fare sono i bilanci, perché implica una fermata a riflettere, e poi si corre il rischio di fare come il nuotatore che se solo guarda un attimo chi gli sta a fianco in corsia, ha perso!
E proprio oggi ci viene in aiuto un meraviglioso specchietto su Repubblica che indica la classifica degli umori di una vita. Bene: i conti tornano, nella mezza età si sta benissimo! Cito in dettaglio le didascalie: la rabbia raggiunge il suo massimo a 18 anni (non per me, devo dire...), lo STRESS DECRESCE lentamente dopo i 25 anni (ah sì? Non me ne ero accorto...). Le PREOCCUPAZIONI si mantengono ALTE fino ai 50 anni (è vero!). Il DIVERTIMENTO è al MINIMO intorno ai 50 anni (il compleanno di nostro padre...). Il benessere psicologico inizia a decrescere a 21 anni (tutti in analisi!) poi risale a 54 (finita l’analisi!) e a 70 anni supera il livello dei 20 (ricominciamo?). Ma il dato straordinario e straziante è che LA TRISTEZZA HA UN ANDAMENTO COSTANTE PER TUTTA LA VITA A TUTTE LE ETÀ!
E allora, amici di questo blog, l’unica ricetta è la solita: cene con gli amici a base di fette di salame, bruschette, cacio e pepe, porchetta, millefoglie di Cavalletti, prosecchi e grappe Williams gelate! Insieme all’allegria, saliranno il colesterolo e i trigliceridi. Ma quelli, lo sappiamo, sono alti sempre. Tutta la vita!

PS: la foto, come spesso accade, non c'entra niente, era carina e basta!

venerdì 7 maggio 2010

Ieri George 49


Tanto per ricordarselo che quest'uomo sta cominciando oggi la scalata al suo personale giro di boa dei 50. Mi sembra che ci stia riuscendo benissimo e considerate anche il fatto che ha dovuto assistere qualche mese fa a un dialogo di questo tipo quando è stato presentato a Sassari a casa della forse futura suocera:
- Mamma questo è George!
- Come si chiama hai detto?
- George, ma', si chiama George!
- E dove vive?
- In Italia a Laglio!
- Dove?
- Laglio, sul lago di Como.
- Mah... contento lui...
Auguri George!

mercoledì 28 aprile 2010

Non c'è niente da fare


E arriva anche quel momento in cui pensi che non c’è niente da fare. Che è andata così... e che vuoi farci? Niente. Bisogna arrendersi all’evidenza dei fatti. Le cose non sono andate così come ti aspettavi. O meglio sarebbe dire, come speravi. Ti sei dato da fare, hai fatto tutto per bene, hai brigato, hai faticato, hai pensato a tutto quello che poteva succedere, hai pensato alle contromosse, non è servito a niente, è andato tutto storto. E l’aspetto da accettare è che non c’è niente da fare. È andata così. E basta.
Può succedere con tutto, attenzione, mica solo con il lavoro, può succedere con una vacanza, con tuo figlio a scuola, con una donna, con l’alimentari, con un ristorante, con un amico, col ferramenta, con la profumeria, insomma con tutte le cose dietro le quali c’è un’altra persona. Quando non sei tu a decidere, ma chi emette la sentenza, colui che regalerà il sorriso della vittoria o la pena della sconfitta. E quando succede questo non c’è proprio niente da fare. E l’unica cosa da pensare, quando sei sicuro di aver fatto tutto quello che potevi umanamente, è questa: passerà.

PS: ma che c'entra Reasons degli Earth Wind & Fire? Niente, stava bene sotto...

giovedì 22 aprile 2010

Comprare un antidoto...


... non serve a niente. Sappiamolo. - Potrebbe servirmi, nel caso... NO! Non ti servirà mai, perchè la sola presenza in casa dell’antidoto scongiurerà il verificarsi dell’evento sfortunato. Ed è proprio per questo che lo dovrete comprare, la regola è se ho l’antidoto in casa, non lo userò mai. Ma se non ce l’ho può accadere di tutto. Facciamoci caso...
I cerotti: “magari mi taglio, così mi metto un cerotto e buonanotte, guarda, li metto in bagno, così, non appena mi taglio... che ce vo’?”
Non vi taglierete mai, piuttosto vi procurerete chissà come una ferita lacero-contusa per la quale non basterà una tovaglia 80 per 200 per arrestare l’emorragia in attesa che al pronto soccorso vi ci mettano 30 punti. Però un taglietto con il coltellino della frutta, da cerotto, quello no. State tranquilli. Ovviamente per evitare la ferita lacero contusa bisognerebbe avere una sala operatoria al posto della cucina, quindi non si può evitare...
L’Attack: “se si rompe il portacenere del salotto, lo riparo in un attimo...”
Si romperà solamente il vaso finto ming (che voi pensavate essere vero), ma in compenso vi rimarranno l’indice, il medio e l‘anulare della mano destra attaccati (nella sinistra solo il pollice e l’indice) nel tentativo di aprire quel tubetto per la prima e ultima volta.
L’allume: prima cosa chiariamo cos’è. È quella specie di sasso che sembra un quarzo che troneggiava tra le povere cose di nostro padre nel bagno in mezzo a tutte le creme di nostra madre. Il primo istinto è quello di buttarlo, sembra un sasso lunare e pensiamo che sia pieno di germi e bacilli. Invece come lo bagniamo ritorna nuovo, cioè vecchio di 60 anni. Serve a cauterizzare il taglietto sul mento mentre ci facciamo la barba e squilla il cellulare (è quella che tarda, come al solito), ti giri, e via mezza guancia. Se avete l’allume in casa, non vi taglierete mai. Come lo buttate, vi squarcerete la gola con una rasoiata. Quindi tenetelo sempre!
Il togliruggine:
- ma figurati quando mai mi macchio con la ruggine...
Ah sì? E ieri che faceva caldo e avevi la camicia bianca non lo hai spostato il motorino di quello che ti si era attaccato al parcheggio e la catena ti ha lasciato il segno di Zorro? Sembrava nero di grasso, e invece sotto c’era la ruggine. Da quando l’ho comprato però, l’avessi usato UNA volta. MAI!
Ce ne è uno solo che DOBBIAMO comprare comunque ed è la dose di adrenalina, carissima, che dovremmo avere in tutti gli zaini della vita ogni volta che decidiamo di andare in montagna perché non si sa mai che ti punga la vespa rarissima che vola solo a 1850 metri di quota e guarda caso passava proprio oggi, per fare come John Travolta sul petto di Uma Thurman in Pulp Fiction, che solo avere quel coraggio è impossibile. Ma visto per l’appunto che non lo faremo mai, portiamoci dietro almeno un po’ di cortisone facendo finta che sia adrenalina. A volte la scarogna ci crede!

giovedì 15 aprile 2010

Tante scuse


È finita. Diciamola tutta e basta. Dopo Mike e Corrado mancava solo Raimondo per mettere definitivamente una pietra sopra a quella televisione che ci ha cresciuti. Pippo no, aveva già cambiato linguaggio e ora, purtroppo, gli tocca solo avere coccodrilli pronti da tirar fuori, seppure con molto affetto, al momento delle scomparse dei suoi colleghi. Quella televisione che, anche con l’aiuto del tempo galantuomo, come Raimondo del resto, oggi rimpiangiamo con nostalgia, non fosse altro che per l’eleganza del bianco e nero. Eppure, facciamoci caso, con questo terzo lutto, non è scomparso un uomo Rai che viene omaggiato con i filmati delle sue teche, peraltro visti in questi giorni in una definizione un po’ troppo bassa, come se invece fossero stati scaricati da internet. È scomparso un uomo Mediaset. O meglio un uomo della Fininvest dell’allora soltanto Cavalier Berlusconi, e che all’epoca aveva intuito e apprezzato, come noi, quei tre. Non a caso la camera ardente si è tenuta negli studi di Cologno Monzese. Il marchio del ricordo non è quindi in bianco e nero, come per tutti gli altri grandi, ma a colori, seppure ancora nel recinto dell’eleganza di “default” che gli apparteneva. Questo mi fa pensare che la Rai che amavo da piccolo non ha saputo trattenere i tre pezzi da novanta che hanno poi continuato a divertirci negli anni successivi, una Rai forse troppo rigida che, proprio nel passaggio definitivo dal bianco e nero al colore, lasciandoli liberi, ha poi ridicolmente permesso di fare la storia, nuova, della concorrenza. Io mi chiedo: cosa è andato storto? Non era certo una questione di soldi, dài. Se Mike è diventato il personaggio tv con più ore passate in video, e se Corrado, dopo aver proposto il “numero zero” del format “Il pranzo è servito” si sentì chiedere “me ne prepari mille!”, così Raimondo per vent’anni è andato avanti con “Casa Vianello” insieme all’inseparabile nome in ditta della moglie Sandra. Questi erano uomini dotati di un DNA di mestiere che ha permesso loro un’agilità che la Rai avrebbe dovuto utilizzare molto meglio. Infatti, insieme a “Il gioco dei 9” e “Pressing”, Raimondo ha attraversato tutte le fasce orarie dei palinsesti cambiando generi e pubblico senza mai perdere la sua cifra che oggi gli viene riconosciuta: l’ironia su tutto, oltre che su se stesso. Un uomo che per una vita ha sfottuto la moglie in ogni occasione ma alla quale ha stretto la mano fino all’ultimo istante. Questo modo di fare è finito. Per sempre. Chi ha amato quella Rai non può non rattristarsi al pensiero di averlo potuto rivedere solo a Sanremo, nel 1998, dove forse era andato a condurre quel festival, tanto per far capire chi avevano perduto. Dopo la finale Raimondo scappò via dall’Ariston. Per andare a un qualche ricevimento in un ristorante? Una bella serata tra amici per festeggiare l’avventura appena conclusa? No: andava a Milano, c’era da fare la puntata di “Pressing”. Ciao Raimondo, grazie. E tante scuse.

mercoledì 14 aprile 2010

Elogio del vecchio


Se per vecchio intendiamo quell’uomo che ha i pantaloni di velluto un po’ andati, il pullover con due macchie, i capelli bianchi e le mani grosse e un po’ curve, è proprio di quest’uomo che vi voglio parlare.
Perché io l’ho guardato bene e ho visto gli occhi: erano due carboni accesi, di brace ardente. Ho visto che sembrava sordo e invece sentiva tutto quello che voleva e tutto quello che gli serviva. Ho visto che aveva un olfatto che pescava direttamente nella memoria degli anni passati e ricollocava tutto perfettamente nel tempo come un orologiaio che rimonta un meccanismo.
Gli ho visto fare un sorriso a una ragazza che poteva essergli nipote, un sorriso che noi non sappiamo ancora fare, e che forse non riusciremo mai...
Ho visto che si muoveva con l’accortezza di un gatto che non vuole perdere un neurone che è uno, per fare un movimento superfluo ma di cui, per sfizio, non voleva privarsi.
L’ho visto mangiare lentamente perché è una vita che mangia tre volte al giorno e del cibo non gliene frega più niente...
E quando un amico mi ha chiesto “vediamoci, porta due amiche tue” io gli ho detto che frequento solo vecchi, perché loro mi fanno le domande e invece alle ragazze non gliene frega niente delle cose che ti piacciono e che ti fanno sentire te stesso senza pudore. Perché io visto questo vecchio che amava ascoltare le ingenuità che gli raccontavano, senza rimproverarle, ma capendo e consigliando con la serenità di chi sa di aver sbagliato tempo fa e ora tocca a loro sbagliare.
Ho visto un uomo che è stato bambino, ragazzo, adulto, vecchio e adesso ha il tempo per chiedersi cosa è ancora veramente: un uomo e basta.
Insomma io ho visto un vecchio e ho pensato: voglio essere come lui.

lunedì 12 aprile 2010

Vite che scorrono in quelle degli altri


Vedere un ex che ha cambiato per sempre la sua vita, può essere un fulmine a ciel sereno: un incontro che non ti aspettavi e che ti può cambiare la giornata, un periodo, o addirittura mettere in discussione tutta la vita che fino a quel momento hai passato senza di lei. Può capitare. E bisogna essere forti per trattenere il riannodarsi di certe sinapsi che si erano sciolte tempo fa. Perché poi, di fatto, ormai entrambi svolgono una vita propria a prescindere dall’altro. Vite che prima s’incrociavano come uno scambio ferroviario nei pressi di una stazione importante. In realtà esiste una vita propria ed esiste una vita che scorre da sola in quella degli altri. È quella delle mattine quando ti svegli presto e pensi a lei, se sta già correndo. Quando vai in palestra all’ora di pranzo ti getti sul tapis roulant per smaltire le sambuche col ghiaccio della sera prima, all’improvviso sull’iPod nano da 4 giga, passa la canzone che ti ricorda quella sera quando vi eravate conosciuti. Dopo il bagno turco, con tutti gli altri che parlano del campionato “de sta roma, de sto inter”, ti fai la barba e accanto a te senti il profumo del dopobarba che ti aveva regalato lei (che era comunque il tuo preferito da anni, sia chiaro) e adesso lo senti addosso a un altro, ricacciando indietro subito il pensiero “ma che adesso gliel’ha regalato a ‘sto mostro?”. Per non parlare delle strade che avete percorso insieme, i ristoranti, le pizzerie, i cinema, i teatri. Tutto ti ricorda tutto, giorno dopo giorno una vita come questa, la sua, è scorsa da sola nella tua. Tutto inutile. Perché le vite sono altre, ormai. È colpa tua? È colpa sua? Che importa? Avete perso tutti e due. E quegli scambi sono diventati binari che scorrono felici (più o meno) per conto loro. Quindi un incontro del genere può capitare e bisogna essere forti. Non esistono convergenze parallele. Ormai lei sta con un altro (situazione da valutare con euforia se pensiamo “ammàzza quanto è brutto”, o da accettare con depressione se pensiamo “non è male”). Diamo per scontato che voi siate soli mentre la vedete con il nuovo codice fiscale che le sta accanto. Quindi calma e gesso. Evitare rancore anche se giustificato, tipo che non la salutate tirando dritti, e alzando il mento o peggio con ciao di ghiaccio (che in realtà è sciolto e lei se ne accorge, compatendovi). Evitare anche il saluto isterico del “facciamo finta che tutto va ben!” squittendo di gioia con sorrisi che in realtà trattengono lacrime. No. Dritti come fusi, voce bassa, un saluto cordiale ma asciutto, guardandola negli occhi e presentandovi immediatamente al codice fiscale. Avete già vinto la battaglia prima di entrare in guerra. Via adesso: non vi girate mai, mai. Dritti come robot senza telecomando verso il vostro binario unico sola andata e che lei ha perso. Può capitare, sì! Ma, ATTENZIONE, se lei nell’incrociare il vostro sguardo lascia quella mano che stringeva fino a un attimo prima, vuol dire che allora ancora ci pensa. In questo caso potete anche ignorare questo post.