lunedì 4 settembre 2023

Dov'è finito tutto

 

Dove sono finiti quei bicchieri di whisky, che ti facevano sentire “grande” quando eri ancora un ragazzino, ti piaceva così tanto versarlo, facevi un gesto adulto, negli anni una ragazza ti ha regalato un paio di bicchieri giusti per berlo, e adesso quei bicchieri sono in una credenza, appannati perché non li usi mai, se non fosse che poi una sera li tiri fuori, per un amico importante (ma non è un amico, è un conoscente), e non ti senti più grande, ma solo vecchio.

Dov’è finita quella macchina che se potesse parlare racconterebbe di baci rubati riportando a casa una ragazza che ti piaceva ma che chiudendo il portone ti salutava in un modo tale da farti pensare “non la voglio rivedere più” ... oppure racconterebbe di tutte le volte che ti ha aiutato, non sa nemmeno lei come, a farti tornare a casa con 2000 lire di benzina, senz’olio nel motore, coi freni che nemmeno la bici, “tanto ci penso domani”.

Dov’è finita quella camicia che mettevi quando volevi essere elegante? E se non te l’avevano lavata perché ti sembrava di averla usata una settimana fa, invece era solo l’altro ieri, diventavi pazzo perché non ce l’avresti potuta indossare quella sera: quella sera senza quella camicia ti sentivi strano, ti sentivi che non eri tu, ti sentivi inutile.

E tutti quei libri che ti piaceva mettere per terra nella tua prima casa? Ti sembrava di fare una cosa pazzesca, in pile orizzontali tutti addossati al muro: “guarda come li ho messi, bello eh?”. Eri fortissimo agli occhi di tutti... oggi dove sono, in una bella libreria, di design certo, ma sono tutti in ordine, molti li hai addirittura riciclati, perché ti avevano già dato tutto quello che potevano, oppure non li avevi letti, diciamo la verità, e te ne sei disfato. 

E poi, certo, dov’è finita quella valigia di cotone impermeabile, che ha portato i tuoi stracci in giro per tutte le vacanze che facevi da solo, era sporca, rotta, con le fascette degli aeroporti, che quando un'hostess ti levava le vecchie tu rosicavi, perché erano proprio quelle fascette che urlavano a tutti "quanto" avevi viaggiato. E poi quella valigia ti piaceva perché aveva una strana macchia bianca, tutti pensavano a chissà cosa, e invece era solo la pipì di un coniglio portato in camera tua da una ragazza veneta dal sorriso disarmante una sera che volevate far tardi, e quando l'hai rivista anni dopo, quel sorriso non era più disarmante, perché non eravate più in vacanza. E nel frattempo il coniglio era morto. 

E quel cappelletto di lana blu, sì proprio quello di Jack Nicholson in Qualcuno volò, era di lana idrorepellente, anche se al primo temporale non lo dimostrò così bene, ci mangiavi a tavola con gli amici, tutti ti dicevano levati quel cappello e tu rispondevi e allora tu levati quei Ray-Ban, ma rimanevate tu con il cappello e lui con i Ray-Ban e vi veniva da ridere.

Ripenso a quei giorni, quando ti sentivi tutta la forza del mondo nelle tue mani, quando tutto era una scommessa da vincere, anzi, te lo dico, era già vinta, tanta l'euforia che ti permeava. Piove o tira vento, non te ne frega niente, io vado e mi prendo la vita, corro, sfreccio via da tutti i problemi che mi arrivano davanti e me li lascio alle spalle, è troppo bello andare avanti, avanti tutta! Non c'è una preoccupazione che si meriti questo nome nel mio vocabolario, non c'è paura, perché non c'è coscienza.

È per questo motivo che non capiamo quando ci dicono:

- Ma sei incosciente?

Si dovrebbe rispondere "sì, lo sono!" e salutare con una risata sfrecciando via, lasciandosi dietro una scia di polvere di asteroidi di vari sistemi solari fino allora sconosciuti: la vita ci attende e ci dice vieni da me!

E quindi mi chiedo dov'è finita quella voglia che avevi di fare e disfare, di buttare giù tutto e di ricostruire, di mangiarti la vita giorno dopo giorno, di ridere per un niente. Credo che sia rimasta dentro di te, sta dormendo con un plaid anche se è settembre, proprio quello finto scozzese a scacchettoni preso da tua madre con i punti miralanza, e si è appena rigirata dall'altra parte. Allora ti dico, levale quel plaid, così lo ritrovi pure, e urlale SVEGLIA! 

mercoledì 21 giugno 2023

I giorni della maturità

 

Quando ogni anno a giugno arrivano i giorni della maturità, mi fanno sempre un certo effetto, anche se sono sempre più lontani, quel traguardo dell’epoca mi sembra sempre più vicino, chissà perché, forse perché era stata la paura più grande della mia vita fino al quel momento? Boh...

Ma stasera ero a una cena di compleanno, di gente “grande”, peraltro come me e a un certo punto me ne sono andato sul balcone a prendere un po’ d’ aria e purtroppo ho guardato su in cielo: ho visto le stelle, il carro, ho pensato che solo dopo anni e anni capisci che tutte le costellazioni  sono un bluff (le stelle non sono su uno stesso piano), ho pensato al mio motorino, un vespone, alla pioggia che prendevo senza parabrezza e a quanto mi rode se oggi piove (come in questo giugno), ho pensato a un amore perduto, a uno inutile e a quello che forse non avrò mai, ho pensato a tutte quelle cose che oggi mi sembrano facili da capire e che invece a 18 anni mi sembravano immense, ma che per presunzione sembravano a portata di essere umano. Ho pensato ai sogni che avevo e che oggi ancora ho... 

Ho pensato, ho riflettuto, e per un attimo ho avuto ancora 18 anni, con tutta la loro incoscienza. Dov'ero una vita fa con i pensieri, cosa facevo, "cosa" ero? Stavo sui libri di scuola a sottolineare tutto quello che credevo potesse servire, senza gli evidenziatori, perché quelli ce li avevano solo i secchioni, e pensavo (mi sono ricordato esattamente come e dove: sempre sul vespone PX guardando quel meraviglioso contachilometri rotondo), che una volta che mi sarei tolto l'esame di maturità, la mia vita sarebbe stata tutta in discesa! Che avrei fatto quello che mi pareva e che i problemi non ci sarebbero stati più: "dài, quest'esame e poi è finita!". Ma non è fantastico?!? Solo a 18 anni puoi pensare una cosa del genere, davvero, la pensi, e pensi che sia vera, che sia la cosa più vera che hai pensato in "tutta" la tua vita. Non sai che da settembre, dopo il viaggio del "che ne sarà di noi", ti ritroverai con tutto quel tempo in mano che dovrai organizzare in base a una decisione che si chiama "e adesso che faccio?" Ma non devi pensarci adesso, adesso devi pensare a "quell'ultimo scoglio" che la vita ti mette davanti.

Fatto sta che su quel balcone alla cena, improvvisamente si è avvicinata una mia amica con un gin-tonic dicendomi "non ci pensare!". È stato fantastico risvegliarmi in un secondo da quell'incubo nel quale ero finito.

E indovinate un po’ che musica è partita sull’iPhone quando sono tornato a casa? "September" degli Earth Wind & Fire, guarda un po': il mese degli esami di riparazione!

 

 

giovedì 25 maggio 2023

A che ora si va a letto, ormai?

 

Ho notato che l'orario per andare a letto (se non si è programmato in "Sonno" sull'iPhone) si è via via più anticipato rispetto a quando eravamo ragazzi, cioè poco tempo fa! Se ieri andavo a dormire alle 2, alle 3, senza problemi, oggi a volte mi ritrovo nel letto senza saperlo alle 23, alle 22.30, o addirittura alle 21.45! Ma questi orari gallinacei derivano in realtà dall'ora di cena della sera precedente che, attenzione, si è auto-anticipata. Da ragazzi, quando organizzavi una sera al ristorante per non cenare un'altra volta a casa con i tuoi, prima delle 21.30 non ci si poteva proprio arrivare, perché se provavi ad anticipare alle 21.00 c'era sempre qualcuno/a che arrivava comunque in ritardo, normalmente quello fico o quella bona che se la tirava, giustamente, e per la cronaca l'antipasto è nato proprio per aspettare quelli che tardano: "Porto una focaccia?" - "Due, con prosciutto e mozzarella, grazie!". 
Poi finalmente siamo andati a vivere nella nostra prima casetta e lì si faceva una cena a sera, seduti per terra, senza sedie, senza tavolo, senza divano, senza niente, solo cartate di supplì e pizza a taglio, lattine e bicchieri di plastica, poi tutto in un sacco nero e buonanotte, non c'era la differenziata. Tutti gli amici invitati, orario: "passa quando vuoi".
Poi è arrivata la prima convivenza, fermi tutti, c'è la first lady in casa, non decidiamo più noi, ma lei: alle 21! E basta. Tavola apparecchiata, piatti veri, bicchieri pure, posate anche, di carta solo i tovaglioli: "Vino chi lo porta, dolce? Ok!". Non si sgarra.
Poi se tutto era andato bene, poteva arrivare anche il piccolo lord, e quindi decideva tutto lui senza saperlo nemmeno. Non esisteva più orario e in verità a cena non s'invitava proprio più nessuno.  
Dissolvenza, siamo grandi, adulti, sposati o divorziati o scapoli. Orario cena: 21.00, ma noti che qualcuno comincia ad arrivare 10 minuti prima, tu per esempio, con una fame da lupi; lo dico perché personalmente alle 19.30 a casa mi sono già addentato un morso di parmigiano reggiano da quel cuneo meraviglioso che pensavo di grattugiare sulla pasta nell'arco di una decina di giorni: è un miracolo se invece finisce a morsi in tre. 
Passa il tempo, la cena è programmata per: "Va bene alle 20.30? Perché non posso fare tardi...". Giusto, ormai cominciamo a sentire un po' di stanchezza e il giorno dopo ci dobbiamo alzare presto. 
Passa altro tempo: "Troppo presto se ti dico alle 20.00 a tavola?". Tutti felici, primo, perché non vedono l'ora che si mangi, secondo perché non vedono l'ora di andarsene per tornare a casa e finire di vedersi la serie già cominciata prima di uscire a cena. 
Avete capito perché i ristoranti aprono alle 19.30? Perché è pieno di vecchi che cominciano presto e vanno via presto e che mangiano un botto: come un vecchio, per l'appunto!
Sono finiti i tempi in cui l'orario per andare a letto era uno solo: dopo Carosello! 










domenica 16 aprile 2023

Profumo di miscela

L'altro giorno: Roma, Ponte Cavour, semaforo rosso, io in seconda fila dietro un altro motorino, sguardo isterico a destra e a sinistra in attesa del verde, mi viene in mente una barzelletta romana anni 50, "definizione di frazione di secondo: l'intervallo che passa tra il verde e il clacson di quello dietro di te!"... 

All'improvviso succede qualcosa, tutti fermi come prima, ma c'è qualcosa che mi distrae dal semaforo e mi fa guardare in giro per capire, non è un movimento, non è un rumore, è un odore, che proviene dal motorino davanti, un vespone, Piaggio, bianco, vecchio, sporco, è un attimo, capisco subito: la miscela! È il fumo della miscela dal tubo di scappamento: ma adesso mi sembra buono come l'aroma del caffè appena tostato! Perché mi sono ritrovato in un attimo davanti al benzinaio a dire "Ciao, mi fai due litri al 2?". Vallo a spiegare: quel dialogo con il benzinaio faceva parte dei primi rapporti con un adulto che forse non aveva ancora i figli dell'età di quel ragazzo che stava davanti a chiedergli 1000 lire di miscela. Mi sentivo un eroe, senza casco, senza parabrezza, senza miscela, senza una lira, senza una preoccupazione che non fosse quella di "domani che gli racconto a quella di scienze" e "ma come faccio ad andare da Alessia se sto in riserva". E lui mi guardava così, con problemi diversi dai miei, facendo quel mestiere duro, sempre uguale sotto la pioggia, il sole, il vento, tutti i giorni a respirare quei miasmi di benzina che ti piacciono solo quando fai il pieno ma non tutti i giorni 8 ore al giorno, lo stipendio che forse gli permetteva un mutuo, una moglie, un figlio in arrivo. Ma nonostante tutto mi dava retta agitando quelle leve della pompa per miscelarla con l'olio, quando gli dicevo "mettila tutta!" mentre lui accarezzava quel tubo di gomma come un domatore il suo boa constrictor per fargli nascondere quei decilitri in più che avanzavano dal precedente pieno, ma che io non avevo pagato! E al momento di pagare era impossibile lasciargli 50 lire di mancia, impossibile, perché mi servivano! Ripartivo a bordo del mio ciao blu, con una pedalata violenta, nervosa, rischiando di rompere il cavalletto, salutandolo di corsa, un urlo senza guardarlo "ci vediamo!", perché dovevo andare via di corsa, verso la mia vita fatta non di giorni, mesi, anni, ma da sequenze di 5 minuti, da bruciare una dietro l'altra, perché era così che la volevo, tutto subito, adesso, o niente. Alessia e basta! Scienze domani? Ma chi se ne frega!

Dissolvenza: è passata una frazione di secondo, quello dietro mi ha suonato e quindi è verde da un'ora! Chi era quello sul vespone? Ho visto solo che aveva un trench sporco, non ho fatto in tempo per altro, se ne è andato via di corsa, ma l'ho riconosciuto lo stesso: era il mio passato che scappava in una nuvola. Di miscela.





domenica 14 agosto 2022

A mani libere

 

A mani libere. Questa dev’essere l’estate (in realtà i quindici giorni, o il ponte di ferragosto, o la vacanza minima, o l’unico stacco da quei 350 giorni che ci mancano per finire l’anno) delle mani libere. Non voglio essere come quei ragazzini che nella sinistra hanno l’iPhone e nella destra lo spritz, con lo sguardo che non sa dove posarsi e se devono salutare una ragazza, peraltro anche lei con le mani impegnate, possono solamente alzare il mento o le spalle perché non hanno il coraggio di buttarsi alle spalle quel drink per stringerle a sé, e sospirargli all’orecchio un “stasera insieme?” È a mani libere che voglio passare questi giorni, per fare un saluto appunto, magari da lontano, per accendere una sigaretta, chiunque me lo chiedesse, con un Dupont d’argento, l’unico accendino degno di questo nome, per stringere una mano a chi nemmeno me la porge, per giocare una partita a carte, ordinando un cordino  (troppi gin tonic questa primavera/estate passata), per leggere un menù usando gli occhiali e non la torcia dell’iPhone (a mani vuote, no?!?), per scrivere una cartolina chiedendo il francobollo alla posta (ormai li trovi solo lì dentro e ti guardano pure come un alieno), invece di un sms, o addirittura una lettera con la carta intestata dell’albergo, invece di un vocale su whatsapp, immaginando lo stupore di chi riceve questo atto d’amore che potrebbe anche essere male interpretato e che al massimo potrebbe ricevere un sms stupito di risposta, ma che magari verrebbe apprezzato tra vent’anni, quando a tutti loro verrà da piangere a dirotto per qualsiasi sguardo affettuoso gli venga rivolto: è lì, in quel momento che si ricorderanno di questo bellissimo gesto chiuso in un cassetto, cercandolo con violenza. Sto lavorando per tutto questo, a mani libere! È a mani libere che voglio cadere in avanti, se proprio devo, per evitare di fratturarmi qualsiasi cosa, mi servono libere per scrivere questi pensierini, per poter leggere un giornale di carta e non sull’iPad anche se è comodissimo (e attenzione: se riprendi in mano il “cartaceo” come per incanto non ti servono gli occhiali, come è possibile???). A mani libere, la testa mi gira meglio e può cominciare a fare quel viaggio che non ho mai avuto il coraggio di fare, quello che non conosce confini se non quelli della paura e per una volta sarò in grado di capire finalmente qualcosa di questo viaggio, questa linea più o meno retta che stiamo percorrendo da tanto tempo ormai e che ogni tanto, fortunatamente prevede una sosta, a patto di avere le mani libere, anche per scrivere qualcosa e non dimenticarsela. Buone vacanze!

martedì 2 novembre 2021

If Keith Emerson 77

 

Da Beethoven a Keith Emerson senza passare dal via. Questo è stato il mio personale passaggio dalla musica che c’era a casa, alla musica scelta da me: no Beatles, no Stevie Wonder, no tutto il resto che è venuto dopo. Non ancora. Alle medie mi dicono “ma se ti piace così tanto la classica perché non ti senti Pictures at an exhibition” degli Emerson Lake & Palmer?”. E così è andata! Io che conoscevo solo l’arrangiamento magistrale che Ravel aveva regalato a Mussorgsky, che l’aveva scritta per piano solo, sento per la prima volta in assoluto che cosa si poteva fare di un pezzo come quello: sbrocco e mi compro tutto il resto diventando un mitomane di questo tastierista! Scoprendo per esempio che un pezzo come “Tank” era stato la sigla di una rubrica del TG della Rai dell’epoca. Grazie a Keith Emerson e alle sue citazioni scopro Prokovief, Copland, Rodrigo, Bartok, insomma il 900 che mai avrei immaginato avrebbe potuto piacermi così tanto. Tanto da portare Allegro Barbaro alla mia insegnante di piano per suonarlo, lei mi ride in faccia: “scordatelo”.

“Honky Tonk Train Blues” (la sigla di Odeon) dove Keith “inceneriva” quella tastiera di un piano verticale, come il mio, mi andai a comprare una catenella da tappo della vasca perché sulle riviste si diceva che quello era il trucco per avere quel tipico suono metallico da piano-saloon! (Marcello Avallone era il regista del video girato a Los Angeles contro un telo nero perché i controcampi erano stati già ripresi a Roma!). Andavo ancora a sentire i concerti a Santa Cecilia e allo storico critico musicale del Messaggero Teodoro Celli, gli portai il disco del Piano Concerto N.1 di Keith Emerson chiedendogli se lo conoscesse. Quel sorriso “pat-pat” di compatimento non lo dimenticherò mai più!

Anni dopo Keith arriva a Roma, direi per la colonna sonora di “Inferno”, scopro che dorme al Raphael e imploro mia madre english speaking di chiamarlo in albergo per chiedergli un appuntamento per fargli un’intervista. Lui gentilissimo le risponde di chiamare il suo ufficio stampa. Niente: mi è rimasta la cassetta BASF 90 con l’audio delle telefonata tra loro due.

Riesco finalmente a conoscerlo negli studi della Safa Palatino (dove anni dopo avrei partecipato a Non è la Rai) e finalmente mi scatto una foto con lui e mi faccio firmare album e spartiti. Ma non riesco a fargli capire quanto fossi plagiato da lui. Vado all’Arena di Verona a sentirlo LIVE con quegli altri due, Greg Lake gonfio e stonato, Carl Palmer magro ma tonico, e lo vedo in piedi sull’hammond con i coltelli “No, Keith no! Ti fai male”

Continuo a comprare i suoi dischi, uno con gli ELP e l’altro da solo dove dedica un pezzo al suo Steinway! 

 

Scrissi tutto questo prima che Keith si facesse male sul serio cinque anni fa,  e oggi, che sarebbe stato il suo 77 compleanno, so solo che il mio primo mito, vero, in carne e ossa, sta correndo con quelle dita veloci su altre scale, verso l’infinito.

giovedì 14 ottobre 2021

Compagnie aeree



Il primo lavoro di mia madre è stato alla LAI, Linee Aeree Italiane, è rimasta lì qualche anno, prima che venisse chiamata Alitalia. L'ufficio si trovava in Via Barberini, in un palazzetto accanto al Cinema Barberini e accanto alla Compagnia di Navigazione Marittima "Italia" (proprietaria della motonave Andrea Doria, il precedente e unico modo di andare a New York, via mare, 10 giorni di viaggio). Mia madre era stata assunta perché parlava tre lingue oltre all'italiano educato degli anni 50, era giovane, aveva 21 anni, e non le pareva vero di stare lontana da casa, e da sua madre, almeno 10 ore al giorno. Lavorava all'ufficio prenotazioni e riceveva chiamate da chi all'epoca faceva parte del jet-set senza nemmeno saperlo, un club esclusivo la cui tacita iscrizione era concessa dal semplice fatto che si potesse comperare un biglietto aereo andata e ritorno. Nel 1957, conosce mio padre, che lavorava sempre alla Lai, ma al "cargo". L'aeroporto era quello dell'Urbe sulla Salaria, poi è stato Ciampino, e il check-in si faceva a Via Barberini: i passeggeri "imbarcavano" i loro bagagli negli stessi pullman che li avrebbero poi portati direttamente all'aeroporto! Solo dopo le Olimpiadi del 1960 si cominciò a decollare dall'aeroporto Leonardo Da Vinci, a Fiumicino.

Nel 1958 viene chiamata alla SAS, le linee aeree Scandinave, in Via Bissolati, che insieme a Via Veneto, era la strada della dolce vita, anche geograficamente: una volta passati davanti a Palazzo Margherita, sede dell'Ambasciata Americana, era inutile scendere a destra per il secondo tronco di Via Veneto. Sul curvone con un enorme platano al centro, c'erano solamente l'IRI, le banche e qualche albergo. Invece scendendo dritto per dritto trovavi appunto tutte le compagnie aeree. C'erano la British Airways, l'ELAL, la MEA, la PAN AM, la TWA, la stessa ALITALIA: nomi che ti facevano sentire "international". Anche il bar, si chiamava "California" e lì potevi fare qualche acchiappo: i turisti che andavano a verificare il biglietto nella compagnia di bandiera, non resistevano alla tentazione di un "italian cappuccino" al bar. Insomma andare a farsi un giro a Via Bissolati tra una vetrina e l'altra era come andarsi a fare un giro per il mondo in 80 vetrine. 

Dicevo, da quel momento, grazie alla SAS, a casa mia venivano oltre alle sue colleghe italiane, anche quelle svedesi, alte, bionde, occhi azzurri, non ci capivo più niente e senza volerlo hanno condizionato per sempre i miei gusti! Quando poi nel 1980 Calvin Klein disegnò le divise anche per chi non lavorava a bordo, vedere mia madre elegantissima a casa la mattina quando usciva mentre io ancora andavo al liceo era comunque una cosa...

Racconto tutto questo perché la sera a tavola gli argomenti erano su questo lavoro, mio padre nel frattempo aveva cambiato mille compagnie aeree, e i miei per non farsi capire da noi ragazzi cominciavano improvvisamente a parlare inglese o francese, quando la dicevano troppo grossa su qualche collega, e noi, petulanti, insistevamo per sapere quale fosse mai quel pettegolezzo cui non avevamo accesso... 

Racconto tutto questo perché le colleghe italiane del booking office, mi hanno visto crescere, da neonato a ragazzo "ribelle" ("che vuoi farci Sandra: è l'età..."), regalandomi negli anni le fiabe sonore, le macchinine Legoland, qualche libro per ragazzi, qualche 45 giri "Vengo anch'io, no tu no", qualche felpa; mi hanno addirittura consolato quando i litigi a casa erano la regola, e tutto questo al telefono perché loro vivevano al telefono fisso dell'ufficio. 

Racconto tutto questo perché sono state madri tutte, tanto che la mia preferita, Birthe, danese di Copenhagen, l'ho chiamata mesi fa e nel suo italiano pazzesco mi ha detto "Rigardo, ma... aspetta, mi verso un bighiere di vino, è troppo fforte la sopresa". Non voglio sapere quanti anni ha, vive in un villaggio sulla costa della Danimarca, e oggi, che Alitalia fa il suo ultimo volo con quel nome pazzesco, ho pensato a tutte loro: le ragazze delle compagnie aeree...