lunedì 28 febbraio 2011

Corto circuito


Finora non eravamo in grado di ragionare a bocce ferme, su uno dei più bei cortocircuiti mai visti e sentiti in tutta la vita. Mi riferisco ovviamente all’incontro durante il Festival di Sanremo tra Gianni Morandi, Elisabetta Canalis e Robert De Niro sul palco dell’Ariston quando Morandi in una parentesi del discorso ha chiesto alla Canalis: “Come si dice Taxi Driver in inglese?”. Premesso che la frase non ha alcun senso, solo oggi, una settimana dopo, siamo in grado di capire esattamente cosa è successo in tre cervelli: quello di Gianni Morandi, quello di Elisabetta Canalis e anche in quello di Robert De Niro! Cominciamo da quello di Morandi: nella mente onestamente sovraffollata da qualsiasi pensiero inerente al regolare svolgimento del Festival si è innescato un cortocircuito, in realtà nient’altro che un piccolo equivoco, un piccolo lapsus, una specie di qui pro quo. Gianni in realtà voleva chiedere alla Canalis come era stato tradotto in Italia il titolo del film del 1976 “Taxi Driver”, diretto da Martin Scorsese e scritto da Paul Schrader (futuro regista di American Gigolò, pensate un po’!) e non certo quello che gli è uscito di bocca. La Canalis, che manco era nata nel 1976, ha risposto “Taxi Driver!”, facendo un’involontaria battuta, bellissima (proprio perché il film in Italia uscì con lo stesso titolo), una di quelle da applauso, quelle che un comico chiama jolly, come le dici le dici il pubblico ride, e 8 volte su 10 viene pure l’applauso. Ma Elisabetta mentre rispondeva in ITALIANO “Taxi Driver”, era in realtà vittima di un altro corto circuito: mentalmente ha tradotto taxi driver dall’inglese in italiano “Conducente di Taxi”, poi ha pensato “non me lo ricordo questo film”, e poi ha pensato “come si dice conducente di taxi in inglese? Con George non l’abbiamo mai preso, abbiamo l’autista! Comunque io direi taxi driver, autista, guidatore, conducente, sì, direi così, taxi driver!”. E l’ha detto. Risposta esatta e battuta fantastica involontaria. Rimane Robert De Niro, cioè l’attore per antonomasia e indimenticabile protagonista di “Taxi Driver” per l’appunto, che nell’orecchio destro aveva un auricolare collegato al traduttore e con il sinistro aveva la scena dal vivo: quindi due canali stereo. E ha sentito tutto questo. Orecchio Sinistro: “Come si dice Taxi Driver in Inglese?”. Orecchio Destro: “How do you say Taxi Driver in English?”. Orecchio Sinistro: “Taxi Driver!”. Orecchio Destro: “Taxi Driver!”. Sentendo quindi nell’ordine: Gianni in italiano, il traduttore che gli traduceva Gianni in inglese, Elisabetta che rispondeva in inglese a Gianni pensando in italiano, il traduttore che traduceva dall’inglese di Elisabetta all’inglese per De Niro. Cosa ha pensato De Niro in quel secondo? Probabilmente solo questo: “Se chiamano un taxi vuol dire che l’intervista è finita. Magari riesco a prendere il volo delle 23.45...”.

mercoledì 23 febbraio 2011

martedì 22 febbraio 2011

Gianni e le donne


Ve lo dico subito che questo post è un inno. Succede così quando vuoi restituire un po’ di benessere che hai ricevuto durante un’ora e mezza al cinema. È quindi un inno al film appena tornato dal Festival di Berlino e che ha mostrato come un uomo, che ha scritto la sceneggiatura di un film come Gomorra, cerca di gestire i suoi rapporti con le donne e s’intitola appunto “Gianni e le donne”. Quando uscì quell’ormai mitico “Pranzo di Ferragosto”, speravo di vedere il prima possibile anche un “Pranzo di Natale” e magari anche un terzo “Pasqua con chi vuoi”. Sarebbe stato troppo facile per un produttore chiederli, e troppo facile per noi pubblico vederli. E quindi questo secondo episodio della vita di Gianni ci racconta una verità che hanno in comune tutti i maschi che abitano su questo pianeta Terra. È la storia di un uomo che, esauriti i compiti “istituzionali” e poi uscito dalla casa materna, può trovare solo altre donne, di tutte le età, a gestirlo e a mandarlo di qua e di là a fare commissioni, in una sorta di giro di monopoli passando ogni volta dal via con piccole cose da fare, da Vicolo Corto a Parco della Vittoria. Sono frammenti di una minutaglia, quella di tutti i giorni, che messa insieme restituisce l’interezza di una vita. Una vita nella quale la sera si cena ovviamente in trattoria, e se capita al ristorante, perché no? Magari in compagnia di due belle ragazze che per un’oretta ti fanno credere di voler passare il resto della serata con te e invece hanno già un altro appuntamento e quindi... “magari la prossima volta”. Oppure di una mezz’ora passata sul davanzale di una finestra con un “bianchetto” in mano, o meglio uno Chablis, a guardare chi passa di sotto, e la testa, per quella breve parentesi di tempo che le lasciamo, è libera di viaggiare altrove, in una prateria del pensiero che altrimenti non avrebbe trovato: sono talmente poche le decisioni che prendiamo che quelle piccole è proprio meglio godersele. Tutte le altre le devono prendere loro: le donne della nostra vita. Del resto già Gassman l’aveva detto: l’uomo non può essere altro che un uccello che canta su un albero, tutto il resto lo possono fare le donne. C’è un trucco però. Accettare questa verità con filosofia, che nel caso di Gianni, è questa eleganza stratosferica che lui mette nell’accettare la vita come viene, con un sorriso che dietro ha una frase sola: “e vabbè...” (sottotesto: che ci vuoi fare? È la vita!). La verità è che Gianni Di Gregorio ci piace da morire perché è educato, gentile, lo vorremmo avere a casa, vicino in ogni situazione a rischio, pronto a risolverla con un consiglio che manco tua nonna sarebbe in grado di dare. E soprattutto con stile: su un autobus Gianni incontra una donna e scendendo la guarda ancora un attimo per vedere se riusciva a “portarsi a casa il suo sorriso...”.
Serve altro?

lunedì 14 febbraio 2011

I'm coming out


Nel 1980, faceva caldo, usciva un disco con un titolo semplice “diana”, scritto in minuscolo, in copertina una bella signora in fruit bianca non stirata e jeans, ci sembrava una vecchia, che si manteneva bene, fotografata in un bianco nero molto cool da Francesco Scavullo, un fotografo di moda e di celebrities che all’interno della copertina, che si apriva in due come se fosse un doppio, ne aveva scattata un’altra a colori, con un vestito, meglio fuori, e una firma: Diana Ross. Il disco era prodotto dagli Chic che pochi anni prima avevano inventato il giro di basso cui tutti negli anni successivi si sarebbero poi ispirati. 8 pezzi: 4 lato A e 4 lato B. Basta. Il primo era “Upside Down”, e va bè ce lo ricordiamo tutti, ma l’ultimo del primo lato "I’m coming out" cominciava con una chitarra che ordina gli accordi sui quali ‘sta vecchia deve cantare il fatto che sta venendo fuori, un assolo di batteria va per conto suo senza fare capire cosa deve succedere, tanto che il pezzo sembra non cominciare mai e finalmente, dopo 52 secondi, una tensione pazzesca, parte il giro di basso e quindi il pezzo.
Personaggi e interpreti all’epoca di questo disco:
Cantante: Diana Ross che all’epoca aveva 36 anni, (sembrava una vecchia?)
Produttori: Bernard Edwards 28, Nile Rodgers 28.
Fotografo: Francesco Scavullo, era il più vecchio e ne aveva 59.
Acquirente: io, 17.
E sto qui, oggi, 31 anni dopo, a scriverne.

Diana has left the building

La nuova Fiat


Questo spot al momento è stato visto da oltre 6 milioni di persone, oltre a tutti quelli che se lo sono bevuto durante l’intervallo del Superbowl (mandarlo in onda costa appena 9 mln $: praticamente un’Olgettina). Pubblicizza un’automobile prodotta negli Stati Uniti d’America, e in scena c’è proprio una Chrysler 200, una macchina da vecchi, guidata da un ragazzo, Eminem, di professione rapper. Questo ragazzo, ex-tossico, convertito al burro e parmigiano da Elton John (come al solito, dove c’è droga, Elton arriva per aiutarti a smettere), perlustra Detroit e i suoi posti del cuore, compresi il Ponte Ambassador, i murales, i monumenti, le pattinatrici sul ghiaccio, tutto sotto un’altra lente, quella della voce fuori campo che lo accompagna: dal tono chissà, potrebbe essere quella di un operaio Chrysler che per tutta la sua sporca vita ha imparato che è il fuoco rovente a rendere l’acciaio più forte, in una vita fatta di bulloni, lamiere, grasso, stracci di canapa, in una parola lavoro duro, oltre a pinte di birra bevuta ai bar lì intorno alla fabbrica a fine turno. Dopo un giro in questa città, dove la nebbia e il fumo non hanno confini tra loro, l’automobile si ferma davanti al Teatro Fox dove stanno facendo le prove i componenti di un coro gospel. Il ragazzo li raggiunge sul palco e annuncia perentorio: “Questa è Motor City, questo è quello che facciamo” e se ne va. Scritta finale: “La Chrysler 200 è arrivata. Importata da Detroit”. Meraviglioso, complice questa voce straordinaria che con la consueta struggente cerimoniosa retorica americana, fa prendere sul serio tutto quello che mettono in scena gli americani, dagli Oscar alla recita dell’asilo. Questo spot parla di storia, la loro, di costruttori di automobili, ma soprattutto di orgoglio, cittadino, proprio quello di Detroit, tanto da sottolineare che non stanno parlando di New York, e nemmeno di Chicago, ma di una città, Detroit, che con il lusso non c’entra niente.
E allora, visto che la Chrysler e la Fiat oggi sono la stessa cosa, perché uno spot così non lo facciamo anche noi, in Italia? Già me lo vedo: sulle note di “Tutto il resto è noia” del Califfo, uno dei ragazzi di Amici o X-Factor percorre le strade attorno alla Dora Riparia, passa davanti a Mirafiori, gira attorno alla Mole Antonelliana mentre la voce di un cassaintegrato in pensione pronuncia frasi tipo “questa è la nostra storia” (ma de che? che nemmeno ci riusciamo a mettere d’accordo se festeggiarla questa unità d’Italia). Ancora qualche giro, il ragazzo, dopo aver parcheggiato in terza fila, entra al Teatro Alfieri, e sulle note di un coro nostrano che intona “O sole mio” guarda in macchina e dice nel suo italiano smagliante: “Questa è la città dei motori, questo è quello che facciamo, nè?!” Arriva una scritta: “Nuova Panda, importata da Torino!”. Com’è?

martedì 8 febbraio 2011

Le decisioni


Hai mai pensato a certe decisioni della tua vita? Hai mai pensato che senza rendertene conto hai potuto dare una certa piega alla tua vita invece di un’altra, insomma di avere imboccato una strada, non necessariamente sbagliata, ma comunque diversa? Sai che esistono vite differenti dalla tua, ma molto più vicine di quello che credi, solamente per l’atteggiamento diverso che si può avere nei confronti di quel viaggio a termine che chiamiamo vita? Sai che ci sono stati uomini che si sono ritrovati 4 figli da donne diverse, che amavano in modo differente l’una dall’altra, e oggi ci sono 4 figli in giro che lo adorano comunque? Ci sono uomini che hanno scelto un lavoro dopo aver studiato anni e anni per farlo e ora gli sembra la cosa più spaventosa della loro vita. Ci sono uomini che si ritrovano in un posto per il quale non hanno fatto niente e si guardano indietro e pensano che in fin dei conti va bene così.
È vero che le decisioni più importanti della tua vita le hai prese senza nemmeno renderti conto di quello che stavi facendo.
Quante sono le decisioni prese perbene, a tavolino, pianificate, volute, in una sola parola, “decise” che lasciano il segno nella vita di un uomo? Al netto di una vita di 80 anni? Due? Tre? Quattro? E quali sono? Il matrimonio? I figli? Un mutuo? E adesso che ci guardiamo indietro e le abbiamo prese, cosa pensiamo, cosa proviamo? Abbiamo fatto bene, abbiamo fatto male? Tua moglie: ci stai ancora insieme, o hai divorziato? E con tuo figlio? Pensi di essere ancora un modello per lui come quando aveva 10 anni? Ti guarda ancora negli occhi, ci parli? Ti chiede un consiglio? La casa che hai comprato è stata l’officina della tua vita o solo un posto per dormire? Te lo chiedo perché vorrei sapere se lì dentro i muri parlano di te e della tua storia, dei momenti che hai passato tra quelli belli e quelli brutti, tra ricorrenze e date importanti. Quando avrai risposto a queste domande chiediti allora se per caso invece di quelle tre, quattro grandi decisioni, non abbiano forse contato quelle “piccole”, prese ogni giorno ma che, messe tutte insieme, hanno dato una svolta alla tua vita. Qualcuno dice che in realtà c’è un’altra vita dentro di noi, è solo molto profonda, ed è quella che decide per noi. Senza il nostro controllo, che interviene solamente per mettere in atto, praticamente una formalità: la decisione è già stata presa, senza di noi, senza la nostra apparente coscienza.
Questo volevo dirti, perché già ora che ci pensi, in realtà, hai già deciso.

lunedì 7 febbraio 2011

Ciarpame


Ciarpame. Come altro definire quella roba che abbiamo a casa sotto gli occhi tutti i giorni ma che non usiamo semplicemente perché non la vediamo? Siamo pieni di ciarpame, il cui principale difetto, nascosto fino a quando non te ne liberi, è che ha un suo volume, occupa posto dentro casa nostra togliendoci l’aria che respiriamo. Tra i mille me ne vengono in mente solo tre. I deodoranti per la casa, quali? Quelli vecchi normali in una boccetta con lo spruzzatore? Quelli con nome tipo “conifere” oppure “acqua marina” che usi solo quando arriva a cena una ragazza? Magari fossero solo quelli, non dimentichiamoci di quelli nuovi, pubblicizzati in tv, dotati di un sensore a raggi infrarossi che, come un antifurto al passaggio di un estraneo, pardon, di qualcuno in casa, rilasciano una spruzzata automatica di una qualsiasi essenza che può ricordare sempre e comunque une di quelle che ti mette il meccanico quando gli lasci la macchina in riparazione al grido di darle una sistemata. Per non parlare di quelli un po’ più zen, con i bastoncini infilati in una bottiglia di vetro: vanno capovolti ogni tanto, non ogni sei mesi, ma nemmeno una volta al giorno, ogni tanto. Ci fosse una volta che ci riesci, mai! Li prendi in mano quegli stecchini tipo samurai che fanno tanto casa di Giorgio Armani e come li tiri fuori schizzano tutto intorno, soprattutto negli occhi, l’essenza magica, che ti ritrovi poi per altri sei mesi sulla mano da sciacquare immediatamente, pena pericolosi arrossamenti: Armani lasciamolo fare ad Armani. Lo svitatappi di metallo per aprire le conserve di pomodoro che ti hanno regalato. Scena: cucina, interno sera illuminato. Seduto su uno scaletta Ikea Bekvam da €8.99, stringo tra le ginocchia un vaso in vetro di pelati da paura chiuso con il piombo da una bollitura professionale. Impossibile aprirlo a mano. Mi ricordo di possedere quello svitatappi universale. Lo imbraccio come un mitra. Lo avvolgo al barattolo come un boa, lo strozzo al collo di “quel bastardo” in una mossa tipo discobolo di Mirone, funziona. Troppo. Il coperchio vola via come un frisbee lanciando schizzi di polpa di pomodoro finissima per tutta la cucina, in quel momento suona il citofono, è arrivata la ragazza. La cucina sembra un mattatoio ma lo spaghetto al pomodoro e basilico sarà da paura, anzi, da film horror! La ragazza accusa un lieve mal di testa? Eccoci in un balzo davanti al terzo ciarpame: la scatola delle medicine, sarebbe la cosa più bella che si ha in casa ma in realtà cosa c’è dentro? Niente di utile, è tutto scaduto. Rimangono invece tutta la vita disponibili, i prodotti per l’aerosol, alcune compresse da erboristeria contro il mal di gola, un collirio, una siringa che come la vedi ti spaventa e miliardi di fermenti lattici, vivi o morti, è uguale. Un antidolorifico qualsiasi mai. Ma sul fondo di questa riserva di ciarpame spunta bello e inutile un pacco di ovatta. E ti viene in mente solo una cosa: speriamo che qualcuno si faccia male, così la uso!