martedì 1 marzo 2016

Un pezzo sigla

I pezzi sigla sono quei pezzi (come li chiamo io “pezzi”, si dovrebbe dire “brano”, ma “pezzo” mi piace di più, non so perché) che per un motivo o per l’altro diventano la sigla di qualche momento della tua esistenza. Non dipende dall’epoca in cui sono stati scritti, ma dal momento in cui sono capitati nella tua vita. E assumono solo quel mood che stavi vivendo allora.  
Tra i tanti mi è tornato in mente questo di Christopher Cross: “Ride like the wind” del 1979, anche se per noi era una novità del 1981! Nel mio caso specifico questo pezzo è diventato senza volerlo la sigla della notte dei miei “100 giorni”. Eravamo con quasi tutta la classe al Circeo, in una casa di una nostra compagna che l’aveva aperta a marzo per l’occasione: sacchi a pelo per tutti, divani, e i letti delle camere. Ovviamente tutti a urlare “barbecue”, poi una volta arrivati si scopre che piove, tira vento e che fa un freddo blu. Quindi pizza e via! (cosa avremmo combinato in quella pizzeria?!). Poi si torna a casa, qualcuno (io) fa le foto con una Kodak Instamatic Pocket, una camera oscura di plastica nera che aveva l’ardire di chiamarsi macchina fotografica. Ma rivederle oggi quelle foto si piange comunque. Qualcuno tira fuori le carte e si organizza un poker patetico. Le ore passano, qualcuno sviene in branda, si rifanno gli stessi circoli della ricreazione, gli amici con gli amici, qualcuno finalmente scopre che quel compagno di classe che odiava dal primo giorno del ginnasio in fondo non era poi così male.
Poi l’alba, che fai non la vedi? Con il solito astronomo secchione che dice “l’alba sul Tirreno non c’è, si vede sull’Adriatico...”. Ah già! Vabbè ma che ci frega! Noi siamo giovani, noi dobbiamo fare la maturità! I discorsi si allentano, i silenzi diventano più lunghi e gli sguardi si cominciano a perdere davanti a quest’alba che non arriva. E a qualcuno viene un’idea: prende una cassetta TDK e la mette in un radione, fregandosene di quelli che dormono, e partono quegli accordi, Dom7, Sib, dove c’era innanzitutto qualcosa di simile a un orgoglio celato (“ce la posso fare”, non proprio un “ce la farò” compiuto), e una certa fatica da affrontare. Improvvisamente tutti sentono qualcosa nelle orecchie e nell’animo. Ci sentiamo davanti alle nostre vite ancora da vivere, ancora fresche, piene di illusioni, e qualche certezza, che a pensarci bene, le certezze di un diciottenne sono le più tristi che si possano avere. Ma eravamo tutti con il futuro davanti, tutti con quella forza che non riavremo mai più nella nostra vita. Ed è proprio in quel momento che comunque un po’ di luce arriva sulla spiaggia, non è l’alba del Tirreno, è la nostra, e sotto c’è questo pezzo dal titolo profetico: ride like the wind. E per un attimo immenso abbiamo pensato che nella nostra vita avremmo dovuto correre come il vento.
E basta.

PS: sia chiaro poi che se la canzone nell’inglese di Christopher Cross parla di uno in fuga dal Messico con i problemi a scavalcare la frontiera e il suo passato, è un altro paio di maniche, e certo non ne parliamo in questo blog.