mercoledì 31 marzo 2010

Pasqua con chi?


Se è vero che più passa il tempo e più gli anni si contano con i Natali, come si può non fare i conti con le Pasque? Quella di quest’anno è lunga, corta, alta, bassa, presta, tarda, quello che è, media direi, ma è sempre una Pasqua che arriva. Li sento già ovunque, al bar, in palestra, sul metrò, tutti quei refrain uguali anno per anno “tu cheffài appàsqua?”. E il problema è, come al solito, affrontato esclusivamente dalle mogli, dalle compagne, dalle fidanzate che smanettando su internet hanno trovato in pochi secondi scampoli di vacanza all’estero in tutta Eurolandia, a pochi euro stracciati tipo 4 notti 5 giorni tutto compreso, pure i bambini, e le valigie da perdere all’aeroporto (te le danno loro, vuote, così risparmi). Non lasciate il vostro cellulare ai vostri ragazzi che, con la scusa di giocare con il vostro perché il loro è scarico, in realtà stanno chiamando tutti i loro amici per dirsi “che pizza ‘sta Londra...” a spese vostre assurde di roaming non previste dal contratto “tuttocompreso”. Se il problema non è stato risolto con internet può arrivare un invito che suggerisco di accettare nelle case di amici disponibili, che con le attenuanti proprie della stagione (esempio: a Cortina, “dài venite, ancora c’è neve!”, a Capalbio “già è bello, hanno aperto all’Ultima Spiaggia”) invitano gentilmente per non morire di noia. La tranquillità e il riposo sono assicurati, i ragazzi si annoieranno lo stesso ma con due film al cinema avrete risolto. E avrete ancora le vostre valigie al ritorno. Ma adesso, massima attenzione, c’è una bomba da evitare: mentre state leggendo questo post, tenete il cellulare a portata di mano, dietro l’angolo potrebbe esserci una telefonatina agghiacciante che ci ricorda una cosa che da tempo urlava la sua presenza sul comò dell’ingresso: un invito alla prima comunione o alla cresima o al matrimonio di coso. E adesso? Che facciamo? Si risolve così, con prontezza, nemmeno il tempo di fargli dire “ti volevo ricord...” interrompendolo e urlando la scusa pronta con voce crinata: “Adesso! Ti giuro che ti stavo chiamando adesso! Non ci sono mannaggia, avevo già accettato un invito dai Taddeucci, non posso disdire, sono mesi che me l’hanno detto!”.
E chi rimane a casa? Che Pasqua farà? Forse la migliore, se si concentra e accetta di sfondarsi, solamente a Pasqua e a Pasquetta, di coralline, abbacchi, carciofi, ricotte, torte al formaggio e torte all’anice, torte pasqualine e casatielli vari, oltre a uova fondenti e al latte. In finn dei conti se lo merita, dopo la piccola dieta praticata da Natale e che ha tracimato a febbraio con frappe e castagnole e a San Giuseppe con bignè, no?
Perché, diciamola tutta, contando queste Pasque che passano, un detto popolare resiste sempre meno agli anni che scorrono inesorabili: Natale con i tuoi Pasqua con chi vuoi. E alla fine chi vuoi, non so perché, sono i tuoi!

giovedì 25 marzo 2010

Mina70: un post scriptum


Apprendo su Repubblica di oggi in un’intervista a Massimiliano Pani, figlio di Mina Mazzini e Corrado Pani che sua madre, dopo aver inciso “Michelle” nel 1976 ricevette un telegramma dall’autore di quella canzone, tale Paul McCartney, che le scrisse che una versione così bella non l’aveva mai sentita da nessuno. Gentile, no? E infatti Mina come ha commentato?
- Uh, che carino!...
E POI HA BUTTATO IL TELEGRAMMA! L’HA BUTTATO!
Allora fatemi dire che questa donna è un genio. Perché io vorrei sapere come è possibile avere questo distacco da tutto! Noi, che avremmo voluto essere nel cestino della carta straccia di Mina per accogliere qualsiasi cosa Mina avesse buttato (quindi pensa che altro mai ha gettato via PER SEMPRE), non possiamo capire un gesto così alto e sublime. Siamo dei poveracci e con noi anche un signore di Liverpool, che probabilmente non saprà mai che fine abbiano fatto i suoi complimenti...
Auguri!

mercoledì 24 marzo 2010

Come può uno scoglio arginare il mare


Nell’estate che mi faceva dire che avevo ancora vent’anni, una sera al tramonto davanti l’Isola della Maddalena, ero andato a raccogliere 7000 giorni di ricordi su uno scoglio. Non ero solo, appena arrivato avevo trovato un uomo da 18000, di quei giorni. Pensavo di poter essere “all’altezza” e che già solo il gesto che ci accomunava poteva autorizzarmi a stargli vicino su quello scoglio sul quale peraltro era arrivato prima lui.
Che scemo, ma come potevo competere con quella lunghezza di sguardo?
Lui era da solo cercando una calma che gli serviva per fare i conti con se stesso e guardava quel giorno che finiva come un’occasione persa, io come una sera ancora da vivere.
Eravamo entrambi in un villaggio valtur dove raramente si appartiene a se stessi: si è solo dei clienti e poi di altri clienti per 4 mesi di seguito. A inizio stagione sembra un gioco, ma dopo poche settimane si capisce che è un lavoro. A vent'anni credi che possa essere sempre divertente e che un quarto d’ora in raccoglimento possa bastare per sentirsi più importanti di un codice fiscale, ma lui sapeva di avere davanti soltanto 4 mesi in un’isola, senza racconti da fare agli amici al ritorno a casa. Pacchetti di sigarette da fumare, magari a scrocco da gente che ti avrebbe chiesto una foto da mostrare in città durante l’autunno. Drink da bere per non ricordare chi avevi vicino. Indirizzi segnati con promesse impossibili da mantenere. Baci inutili, abbracci tristi e storie da dimenticare. Oltre a quel ragazzo sullo scoglio che non sapeva cosa chiedere o cosa cercare con lo sguardo sul mare.
Perché la comprensione è legata al tempo che passa? Perché ci vuole tempo per capire, perché se ti guardi indietro si sembra sempre ridicoli, perché solo sul letto di morte sarà possibile dire “Ah, ecco, era cosi...” A che serve? Non sarebbe meglio prima? Magari davanti a quel tramonto, arrancando come un granchio per comprendere che per gareggiare con quell’uomo in profondità di sentimenti mi sarebbero mancati altri 11000 giorni di ricordi. E quando l’avrei raggiunto, come oggi, lui mi sarebbe stato davanti sempre e comunque degli stessi.
Ma quando arrivai lassù accanto a lui, nella sorpresa di vedere un ragazzo che cercava qualcosa che forse lui aveva già perduto, mi sganciò uno sguardo e, senza volerlo, un sorriso. E per un attimo ho intuito che non avevo fatto una stupidaggine. A vent’anni. Per una volta.

lunedì 22 marzo 2010

Mina70


Mi dici “Mina70” e che ti rispondo? Che è un bel titolo per un album. E subito dopo penso che un altro pezzo dell’Italia più bella del mondo, quella in bianco e nero, avanza inesorabilmente. Del resto, nei miei ricordi, Mina a colori non esiste, tolto quel giallo cedrata di qualche passaggio tv del come eravamo, cioè gente che beveva la cedrata, (peraltro buonissima, avete mai provato?). Infatti i tre flash indimenticabili che vedono Mina con Alberto Sordi, Alberto Lupo e Toots Thielemans, scolpiti nelle sinapsi che ci hanno inizializzato a 10 anni per tutto il resto della nostra vita, sono in uno smagliante bianco e nero: i colori dello smoking, di un abito lungo da sera, i colori dell’eleganza senza compromessi. Un giro su YouTube e ci rifacciamo gli occhi e le orecchie. Forza!
Mina, Alberto Sordi, siamo a Via Teulada 66, Roma, gli studi della Rai, dal numero 1 dei quali va in onda “Studio 1” per l’appunto, diretto da Antonello Falqui. Un annuncio: “Signori: Alberto Sordi!”. E basta! Pazzesco. La scena è tutta di Alberto. E Mina sta mezzo, ma solo mezzo, passo indietro. Parla solo lui, ride, canta, scherza con il pubblico, e tocca. Sì, tocca Mina, le prende le mani, gliele bacia, e poi le braccia, gliele stringe sulla piega dei gomiti, non la molla un secondo, l’abbraccia per i fianchi e non riesce a staccarsi da lei, il pubblico rumoreggia rosicando per la grande confidenza ostentata fino a quando Alberto non esplode prima con un rimprovero “Aho, io so’ l’ospite d’onore!” e poi con l’ormai classico “Fatti vedere bene da vicino: sei ‘na fagottata de robba!”. Mina subisce divertita e imbarazzata, si schermisce dalla valanga di complimenti e regge con un pudore d’altri tempi agli assalti di Albertone ma soprattutto gli permette di fare il suo numero senza guardare, una volta che è una, in telecamera, o interrompendolo, niente. Lo guarda e lo fa fare. Da vera padrona di casa. Da quella partecipazione, oggi un’ospitata, abbiamo imparato a stringere una donna al nostro fianco, (magari per sempre), come fa Sordi, in smoking, nero, con una donna vicino in abito da sera, bianco. E questo per me è l’unico modo di entrare la sera in una casa per una cena. Fatelo anche voi: saremo tutti più belli. In bianco e nero.
Lasciamo Via Teulada e spostiamoci in Via Col Di Lana, al Teatro 10 (che è il nome “tecnico” del Teatro delle Vittorie). Improvvisamente, dopo un saluto straordinario: “Alberto Lupo vi saluta e se ne va”, quello stesso uomo irrompe da destra in quel mobile di bachelite nera appoggiato su un carrello a due piani di cristallo che abbiamo in un angolo del salotto con una lucina sopra accesa, un apparecchio televisivo dalla marca futurista BRIONVEGA! Quell’uomo comincia a parlare al vuoto chiedendosi che cosa gli succede quella sera. Ma a sinistra entra una donna che ha già tutte le risposte per fargli capire che è finita, e che tutto quello che potrà dirle quella sera non servirà a niente anche se quell’uomo si è appena accorto di essere stato un buffone con lei. Con lei! Con Mina!
Dietro questo numero fantastico c’era la “solita” magica regia di Antonello Falqui che prevedeva che i due non si guardassero mai, con il fedifrago che chiedeva pietà sussurrandole nell’orecchio una seduzione senza speranza a base di frasi assurde e ragionamenti da ultima spiaggia: “si spegne nei tuoi occhi la luna e si accendono i grilli”. Lei continua a cantare nient’altro che la pura verità, senza mai guardarlo. La verità di una storia tra un uomo che dopo mille errori finalmente ne prende coscienza e una donna che ha pazientato troppo. Da quel momento nessuno di noi farà mai più errori simili con una donna. Sapendo che una volta commessi ogni tentativo di riconciliazione si ridurrebbe a una serie di patetiche scuse e giustificazioni, insomma “parole, parole”.
Ora che me ne accorgo in questi tre flash è rappresentata una parabola di una donna: nel primo si lascia sedurre, nel secondo fa capire che ormai è tempo perduto, nel terzo decide di chiudere. Per sempre. “Non gioco più” è la sigla, finale, dell’ultimo varietà di Mina e della televisione italiana: “Milleluci”. Di chi è la regia? Uh, di Antonello Falqui! Da dove va in onda? Uh, dal Teatro delle Vittorie! Il più grande armonicista dei tempi moderni Toots Thielemans (per annotarmi il suo pazzo nome e cognome dai titoli di coda che scorrevano, lenti all’epoca non come un FrecciaRossa oggi, ci ho messo tre puntate tre) è in piedi davanti all’orchestra diretta da Gianni Ferrio e attacca una linea struggente che non fa presagire niente di buono. E infatti, annoiatamente appoggiata a uno sellino fumando una sigaretta con il bocchino una platinante Mina sottopeso, con gli occhi più belli e tristi che una donna abbia mai avuto in un’occasione del genere, ci avvisa di quello che ha già deciso. E io non posso non pensare alla grande gioia interna con la quale cantava questo ritornello ineluttabile che per lei preludeva finalmente alla liberazione da tutti noi che ancora la osanniamo oggi a Mina70. E cioè una donna che ha creduto e vissuto nell’era, ed è giusto chiamarla così, della canzone, quella vera e propria, quando una canzone non era altro che belle parole da ricordare come una poesia, e musica da cantare come una melodia che rimaneva avvinghiata alla memoria tanto da diventare un classico al primo ascolto, e non un “pezzo” accompagnato da video musicali che seppure con scenografie e coreografie di qualità, aggiungono solo fuffa al vuoto della song a colori. Quei colori che (lo vogliamo dire?) ci hanno proprio stufato. Una foto digitale a colori di un matrimonio non sarà mai bella quanto una in bianco e nero. E su un tavolo in salotto ce n’è ancora una, che nemmeno s’ingiallisce dopo tutti questi anni, a parlare di un amore mai finito anche se assente. Il nostro con Mina.

lunedì 15 marzo 2010

Voglio giocare


Los Angeles, California: all’interno dello Staple Center, già sede dei funerali di Michal Jackson, si svolge una partita di pallacanestro che vede schierati i Lakers di Los Angeles contro i Raptors di Toronto. Al match assiste Lapo Elkann che interviene su una palla ancora in gioco. E quindi Lapo ha detto la sua pure nel basket! Se ne sentiva il bisogno da parte di uno che ha sempre avuto a che fare con il calcio o meglio soccer, come lo chiamano lui e Kissinger? Non saprei: per carità, adoro vedere Lapo in prima fila allo Staple Center, che ha il campo grande quanto il salotto di casa sua, il parquet forse è proprio lo stesso, listone Giordano? non credo... e vedere il coraggio di un giovane uomo che se ne frega delle regole e sprezzante del pericolo cerca di dare una mano alla squadra per la quale tifa. Ma attenzione, se cercate il filmato su internet si possono cogliere diversi aspetti. A una prima occhiata l’intenzione di Lapo sembra un atto di pura cortesia: “aspetta, te la prendo io!” ma la reazione del giocatore dei Raptors, di cui Lapo è tifoso, sia chiaro, è più tipo: “anvedi questo!”. In realtà, guardando bene, Lapo, purtroppo, si alza per intervenire un attimo prima che ce ne sia effettivamente bisogno “la prendo io, tanto, è fuori!”, e il cestista sembra dire “ma che fai, la stavo a prènde!”.
Io credo che dietro quel gesto ci sia veramente di tutto, a partire da una sorta di emulazione sulla spinta dell’entusiasmo del momento: “sono tifoso del Raptors, quindi li devo aiutare...”. Un po’ come quando da piccoli, dopo essere usciti dal corniciaio mentre tua madre consegnava una stampa per l’ingresso di casa, dicevi “da grande voglio fare il corniciaio!”.
Poi c’è la voglia di far parte di un gruppo, di voler dare una mano in ogni modo. Rischiando però la figura di quello che non essendo di famiglia dà per primo la notizia del lutto senza aspettare che arrivi giustamente da un congiunto:
- È morto tuo zio, mi dispiace tanto...
- Ma tu che ne sai? Ero in cucina con lui fino a un minuto fa!
Forse c’è anche la voglia di voler fare tutto, così, tanto per vedere l’effetto che fa come diceva Enzo Jannacci, tanto che sarà mai, e allora andiamo pure contromano in autostrada, “alle brutte mi metto in corsia d’emergenza, chi vuoi che passi?” Un’ambulanza magari per prenderti e portarti via!
E infine, last but not least, come direbbe Lapo, c’è una smania di apparire, di cui senz’altro Lapo non ha bisogno, o di creare un evento per farne parlare, era il suo mestiere: qualche anno fa se non avevi una felpa con quel marchio fantastico della FIAT, non contavi niente nei weekend.
Ma, secondo me, stavolta, c’era solo la voglia di poter dire agli amici:
- Hai visto i Raptors? Meno male che l’ho presa io, se no chissà che succedeva...
Vincevano i tuoi Raptors. E invece hanno perso. Ecco cosa succedeva!

martedì 2 marzo 2010

Non c'è nessuno come te


Nel 1983 tra le rastrelliere di Goody Music uscì un doppio LP, bianco con una scritta rosa shocking: Rufus and Chaka Khan “Stompin’ at the Savoy”, un disco con tre lati (che impressione leggere “lati”, ve’?) dal vivo, registrati al Savoy per l’appunto e il quarto in studio. Non una cosa pazzesca, ma non appena giravi, ormai senza speranza, il secondo disco sul secondo lato cominciava una pioggerella digitale di una tastiera e su un break di batteria al 27° secondo parte questa “Ain’t nobody”, prima del 4° lato. Ok.
Era l’83 e l’84 doveva arrivare, quella era la musica di oggi, all’epoca. Come se uscisse un pezzo di Lady Gaga, all’epoca, oggi. La differenza è che dovevi comprarlo, o fare una copia su cassetta Sony al ferro cromo da qualcuno che lo aveva preso in prestito da Goody (io)! Non potevi vederne il video e dovevi immaginare questi che dal vivo al Savoy, tutti sudati, suonavano un pezzo dietro l’altro, ma che alla fine si sono detti “Mo’ basta, andiamo in studio e facciamo un pezzo...”.
Chaka Khan, che solo chiamarla così per casa sarebbe meraviglioso (“Chaka, eccomi, sono tornato...”), all’epoca aveva 30 anni esatti e canta questo pezzo scritto dal suo tastierista (che forse l’amava, di nascosto dal capobanda Rufus Khan) con la naturalezza di una donna che non deve chiedere niente ma dire solo ciao per ottenere quello che vuole da chiunque si trovi nella sua stanza.
Mi chiedo se al momento di inciderlo pensava alle botte che gli dava suo marito, come nelle migliori tradizioni, ubriaco o meno. O se piuttosto pensasse a noi ascoltatori ventenni. Mentre a bordo di una Golf diesel con il Pioneer (compreso amplificatore nascosto dall’elettrauto sotto il cruscotto) cercavamo di fare impressione sulla bionda coi capelli corti di turno. Perché questo pezzo, nonostante dance, aveva un qualcosa di disperato nelle note. C’era una ragazza, Chaka, che diceva “non c’è nessuno che mi ama meglio, che mi rende felice, che mi fa sentire così, non c’è nessuno...” Ma le note dicevano altro alle nostre orecchie, parlavano di un amore che non c’era più, o che la ragazza che si trovava accanto a noi non era quella giusta per noi (lo sapeva pure lei, mentre le facevamo sentire mille volte questo pezzo tornando indietro col dito sul rew). Al semaforo, con il gomito fuori dal finestrino, vagavamo lontani con lo sguardo e ci sentivamo immortali, il pezzo andava e pensavamo che un giorno, chissà quando, saremmo stati felici. Non ci bastava la biondina accanto che avevamo in quel momento e gli abbracci di cui parlava Chaka non erano certo i suoi ma per assurdo quelli di cui avevamo bisogno senza avere il coraggio di riconoscerlo. Ci sentivamo forti, ma eravamo solo incoscienti.
Rufus ha poi disbanded e questo è stato il suo ultimo album. Chaka Khan invece sta su YouTube con 30 chili in più, ma va bene lo stesso...

PS: sul mio contatore di iTunes “Ain’t Nobody”è a 39, compresi gli ascolti di oggi per scrivere questo post...