lunedì 31 ottobre 2011

Quelli che


Quelli che non hanno mai soldi spicci, in nessuna situazione, spesso alla cassa del supermercato, in fila, o peggio contando con una lentezza esasperante gli ultimi centesimi dicendo “ce la faccio, ce la faccio” e invece poi non ce la fanno e finalmente tirano fuori il pezzo da 50: quindi tre operazioni invece di una!Quelli che ti stanno sempre addosso anche negli spazi vuoti, tipo quelli che in farmacia ti stanno dietro le spalle ascoltando tutti i tuoi malanni, o che nel bagno turco o al cinema ti siedono accanto anche se è vuoto come un forno. Vogliamo parlare un attimo anche di quelli che si sposano? Sempre a luglio, col caldo, sempre di sabato, meglio l’ultimo del mese, rovinando il weekend, quello nostro: loro partono il giorno dopo. Quelli che dal dottore, con la sala d’attesa piena, comunque non guardano nessuno e provano a dire alla segretaria “io devo chiedere solo una ricetta”. E i rappresentanti delle case farmaceutiche?Che solo dopo un po’ che li guardi capisci che stanno benissimo e non gli serve niente ma devono rifilare al tuo medico tutti quei blocchetti di carta con il nome della ditta o quelle penne orribili e i campioncini che scadranno prestissimo?E che tanto lo sai che alla fine le medicine sono sempre quelle tre, che Aulin è più forte dell’Oki e che ci devi prendere sempre un protettore gastrico se non ti fa male lo stomaco? E invece quelli che sfilano il bancomat allo sportello e invece di andarsene, lo rinfilano perché si sono ricordati di dover fare un’altra operazione, illudendoti che finalmente sia il tuo turno? Per non parlare di quelli che si appostano per un parcheggio che si sta liberando e se ti avvicini ti ringhiano addosso “c’ero prima io!”. E se per caso sei tu che stai liberando un parcheggio loro arrivano come falchi e ti mettono fretta con lo sguardo. Sono gli stessi che però, se sono loro a liberarlo, fanno finta di non vederti e ci mettono tre ore a infilarsi i guanti, poi il casco, poi si accorgono di avere messo il bloccaruota e si rilevano i guanti, non trovano le chiavi perché le cercano in tasca, quando stavano già infilate sull’accensione e poi ti sorridono pure perché loro ci mettono il tempo che serve e quindi devi avere pazienza: tu, con loro. Quelli che sulla banchina della stazione del metrò non aspettano che tu esca dal vagone, anche se è pieno come un uovo, no: entrano prima loro perché hanno paura di perderlo, stesso discorso per gli autobus, stesso discorso per il treno, dimenticandoci dei taxi, quando piove. E quando piove? Quando stai attento a non bagnarti, quelli che non vedono la pozzanghera, chiamiamola pure lago, perché stanno al telefonino e con lo sguardo cercano solo di prendere il verde e col pensiero di seguire il discorso e ci piombano sopra creando dal nulla uno tsunami che ti investe, ovviamente solo a te.
Insomma sono quelli che “veniamo sempre prima noi” e non si accorgono invece che quelli come noi sanno che al mondo esistono anche quelli come voi.

mercoledì 26 ottobre 2011

Golden Brain


Quello che mi irrita del tempo che avanza è che ogni giorno in più imparo qualcosa che mi è stata già insegnata in tempi non sospetti quando non avevo il cervello per capirlo. Faccio un esempio: quando vedevo mia Nonna che, per lavare un piatto, apriva lentamente l’acqua dal rubinetto per farne uscire poca, io isterico le dicevo, o meglio urlavo: “Nonna, aprilo tutto, così fai prima!” e lei con la rabbia di chi sa, mi rispondeva giustamente a denti stretti: “Se l’apro tutta, l’acqua schizza da tutte le parti, che ne sai tu? Stai zitto!”. Oggi, solamente oggi, capisco che aveva ragione semplicemente perché dopo 100 camicie bagnate non mi va di starle ad asciugare solo perché non mi ricordo di aprire lentamente il rubinetto dell’acqua. Ed ecco, come per magia, che mi sorprendo a farlo in automatico, per esperienza. All’epoca della spiegazione non avevo la testa per capirlo, pensavo a fare tutto in fretta e basta, per avere il cervello libero di pensare ai miei sogni e un piatto lavato senza bagnarsi era l’ultima cosa che occupava il binario tra due sinapsi. In realtà, a pensarci bene, si trattava d’imparare a fare previsioni, riuscire a vedere un po’ più in là, riuscire a immaginare quale reazione potesse scatenarsi da una nostra azione avventata. Insomma avessi saputo che invece di chiedere alla ragazza più carina di uscire genericamente con me, sarebbe stato meglio arrivare con due biglietti per andare a sentire un concerto, avendo pronto anche un piano B: in caso di diniego, portarci la più brutta della classe!
Adesso, finalmente, uno studio ha rilevato che l’età d’oro del cervello la si raggiunge dopo i 55 anni, sarà allora che saremo più perspicaci o semplicemente più attenti, vigili, insomma in una parola: smart! Basta errori di valutazione, solo a quell’età diventeremo 007 del pensiero, capiremo i comportamenti di tutti i nostri amici, e sul lavoro potremo raggiungere vette che prima ci sembravano inaccessibili. Per non parlare di come richiedere un mutuo: non andremo con la voce tremolante timorosi della reazione del direttore, ma come se fossimo titolari dello stesso sorriso di George Clooney, cui è difficile dire di no. Una partita di burraco? Si vince senza fatica; le parole crociate della Settimana Enigmistica? Si va subito al Bartezzaghi tralasciando quelle facili della copertina o ci si fionderà sui rebus riservati agli enigmisti più esperti. Oggi quindi siamo ancora dei ragazzi che devono crescere per fare meglio o con minor sforzo un sacco di cose. Che meraviglia! Posso ancora sbagliare, arrivare tardi a un appuntamento di lavoro e avere quell’aria scanzonata di chi non ha ancora capito che cosa sta rischiando. E proprio mentre penso tutto questo non mi accorgo che sto sciacquando quel bicchierino del caffè che ho appena offerto a una ragazza con un getto troppo schiumante d’acqua calda. Ma vuoi mettere il suo sorriso?
- Riccardo, sei proprio un bambino...!
Sì, qualche volta sì, ancora per un po’, qualche volta sì...

mercoledì 19 ottobre 2011

Per una volta che si dice la verità...


Per una volta che uno dice la verità... Quante volte ce ne siamo pentiti? Una confidenza a un amico, una lettera scritta a caldo, uno sfogo spontaneo, la debolezza di un momento. Purtroppo prima o poi ci si pente e si pensa “era meglio stare zitto...”. Ma perché? Non è meglio dire la verità? Non ci hanno insegnato da piccoli che le bugie hanno le gambe corte e che prima o poi la verità viene a galla? E solo a galla poteva rimanere questa verità giusta, sana e che non ha un pelo che è uno da nascondere. Certo, perché stiamo parlando di una ragazza, Federica Pellegrini, che le gambe ce le ha lunghe, e a galla ci deve rimanere per essere più veloce della luce in una piscina lunga 50 metri (tra parentesi: l’avete mai vista dal bordo piccolo una piscina così lunga? Il Tirreno in confronto è una pozzanghera!).
Alla domanda se farebbe da portabandiera alle prossime olimpiadi di Londra ha risposto: “Otto ore in piedi, mezza giornata sulle gambe non si recupera tanto facilmente, considerando che il giorno dopo ho le gare”. Che le volete dire? Niente, ha ragione e basta. Perché stiamo parlando di una ragazza che al posto delle gambe ha delle pinne, e al posto della braccia due eliche, stiamo parlando di una ragazza che sceglie con molta attenzione la canzone da ascoltare con l’iPod un secondo prima di salire sui quei blocchi di partenza, perché quell’ultima nota strappata alla vita da bipede si tramuti in un pieno di carburante al massimo degli ottani, in un mantra che nessuno conosce, in una motivazione da fuoco d’artificio, nella vita di un pesce per una sola manciata di secondi. Ed è in quei secondi che gambe come quelle roteano come lame che non vorrei avere accanto nemmeno in sogno. In quei secondi quella ragazza frantuma metri cubi d’acqua nello stesso modo in cui i neutrini volano attraverso l’universo, la sua pelle si trasforma in squame di teflon, e l’acqua le fluttua accanto stupefatta chiedendosi “cos’è quella roba più liscia di me?”. E quando poi quella ragazza vince e sale sul podio, quando sente l’inno nazionale, quel Fratelli d’Italia che bello o brutto è il nostro inno, piange di gioia, e noi con lei. È lì che la voglio vedere in lacrime, non per reggere quella bandiera per 8 ore in piedi per la quale darà COMUNQUE tutte e due le sue vite. Tirando fuori tutta la sua verità. Che normalmente si fa in confidenza a una compagna di squadra, insomma roba da spogliatoio, un dietro le quinte, un retroscena di addetti ai lavori dove ci si confida l’onore di portarla e il dispiacere di non poterlo fare perché il giorno dopo si hanno le gare. E la bandiera? Chi la porta allora? Come sempre qualcuno che ha già sudato e forse solo sognato di arrivare a una medaglia se non almeno a una finale. E in ogni caso faccio presente a tutte le federazioni che se non trovassero nessuno, in alternativa la bandiera la porterei volentieri io, perché tanto il giorno dopo mi faccio un bel pediluvio con i saltrati Rodell!

venerdì 7 ottobre 2011

Se Steve se ne va...


Un giorno dei primi anni 80 chiesi a un signore che aveva un brutto negozio vicino casa mia (ma con una mela colorata a strisce sull’insegna troppo bella per non entrare e chiedere), che cosa potevo farci con quello che vendeva: un computer. Risposta: “Se non lo sai tu, come faccio a dirtelo io?”. La differenza tra Steve Jobs e tutto il resto del mondo dei computer è in questa stupida risposta: perché Jobs, dall’America, con un semplice marchio accattivante, era riuscito a portarmi dentro un negozio che vendeva i suoi prodotti e quel signore in un quartiere di Roma a farmene uscire in un secondo!
Anni dopo, con già svariati Mac alle spalle, durante una cena mi sono ritrovato tra le mani un oggetto grande come un pacchetto di sigarette, era il primo modello di iPod e dentro erano caricati i “Duets” di Frank Sinatra e il best “1” dei Beatles. TUTTI LI’ DENTRO? In un secondo ho visto morti tutti i miei LP, tutti i CD che mi ero ricomprato, e tutte le cassette con le quali andavo ancora in giro con un walkman giallo della Sony! Tutto finito! E sempre per colpa e per merito di quest’uomo ho “interrotto un rapporto” che durava dal 1995 con la Nokia, l’unica marca che riusciva ad avere un interfaccia abbastanza comprensibile da un uomo alle prese con un telefonino: adesso con l’iPhone mi sento a posto. La grandezza di Steve, il mio rapporto con lui, è questo, assurdo, ma è questo: con i suoi prodotti tra le mani mi sento meglio, sto più tranquillo, riconosco tutto e capisco tutto. Non a caso uno dei lanci delle sue campagne diceva “Non vorrete certo sapere come funziona un computer...”, ed è vero, a noi che ce ne frega? Basta che funzionino, lo accendi e basta! E ogni volta che lo accendiamo è come se stessimo sul suo, ecco perché Steve Jobs ci mancherà da morire, era lui che li rendeva facili per noi. Il problema più grande adesso riguarda la Apple e quelli che ci sono rimasti: martedi scorso durante la presentazione dell’iPhone 4S avevano tutti il cervello in pappa sapendo probabilmente che Steve li avrebbe lasciati per sempre da lì a poche ore. Ma in passato era proprio lui che nelle riunioni ordinava:
- L’iPhone lo voglio con UN pulsante solo, e basta!
- Ma Dottor Jobs, è impossibile: i numeri sono 10!
- Allora niente! Andate via! Fuori!
Quelli ci ripensavano e poi ci riuscivano. Quegli ordini, figli dei sogni di Steve Jobs, mancheranno molto alla Apple, e forse anche a noi. Nel frattempo, aspettando nuov idee realizzarsi non potremo fare altro che buttarci dentro uno degli Apple Store per respirare ancora quell’aura “magic” da lui così magistralmente creata. Gli altri negozi, come quello dove tanti anni fa mi risposero in quel modo assurdo, possono anche chiudere. Perché Steve Jobs, il loro miglior commesso, è morto.

giovedì 6 ottobre 2011

lunedì 3 ottobre 2011

Una casa vuota


Un mio amico indebitandosi fino a 70 anni, o forse 75, si è comprato casa. Oh, finalmente, forse un po’ in ritardo per essere un italiano, forse un po’ in ritardo per appartenere a una media borghesia che in qualche cascame ancora esiste, ma forse proprio per mettere un punto fermo nella sua vita (anche se non gli importa così tanto: fosse stato per lui si sarebbe comprato una barca, non è sposato e non ha figli) alla fine ha deciso di compiere questo acquisto così importante. Mi ha chiamato per vedere la casa prima di cominciare a fare i lavori. La casa era vuota, nuda e cruda, in buono stato, una tabula rasa dove mettere le mani per potersi costruire la tana a propria immagine e somiglianza. Si prova quell’eccitazione di avere in mano una tavolozza piena di colori e una tela bianca che aspetta solo di essere imbrattata, anche se per molti è un incubo (non escludo che, in un impeto di rabbia, Fontana si sia inventato quello squarcio e poi sappiamo come è andata a finire!). Le case vuote, liberate da poco, hanno sempre lo stesso aspetto portando addosso i segni di chi le ha abitate per anni. Chi ci entra vede sempre i loro fantasmi: un foglio di carta per terra, qualche libro abbandonato, la polvere negli angoli nascosti dai divani e ovviamente le ombre lasciate dai quadri. Si può capire tutto degli abitanti precedenti vedendo queste tracce: gusti, preferenze, abitudini, e quando la cucina viene lasciata, nei pensili rimangono avanzi di biscotti, una farina scadutissima, un pacchetto di cracker: sembrano quasi gli avanzi di una razzia. E come in una lastra a raggi X, in trasparenza e in negativo, vedi tutto. Intuisci la vita che ci è stata, le gioie, i dolori, le miserie umane che appartengono a tutti noi. Che paura! Ma è un attimo: bisogna pensare a noi, al futuro che ci aspetta in questa casa bella, da rinfrescare certamente: “bisogna cambiare gli infissi, bisogna rifare l’impianto elettrico, il riscaldamento, l’aria condizionata, ahò, ma quelli prima come facevano? Il mutuo già l’ho preso, adesso pure un prestito?!”.
Ma pensando alla tabula rasa, vorrei dare un consiglio al mio amico. NON CI METTERE NIENTE! Prima di trasferirti da quel residence che diventerà a sua volta un altro luogo dove fare i conti con se stessi per qualcun altro, fai una cernita di quei quattro stracci del tuo passato e porta solo il meglio nella tua nuova vita! Tu lavori, quando non lavori vai in barca, hai sempre abitato in affitto, hai poche cose, beato te, e così devi rimanere, come un San Francesco del 2011. Vestiti? Ma quanti ne avrai? Stai sempre in giacca e cravatta e nel tempo libero stai in costume: porta 7 vestiti e 10 costumi, 2 jeans e 10 magliette, porta solo le cose che usi e basta. I libri, solo quelli che hai letto e quei tre che avevi sul comodino. Porta la tua musica, tutta, ma soprattutto porta te stesso e quello che potrai diventare là dentro e che ancora non sai di essere, e ricordati quello che diceva mia Nonna: “la bara non ha tasche”. Ti saluto.