mercoledì 28 dicembre 2011

L'arte del riciclo


Lo sguardo crinato, il ciglio sbieco, il sorriso storto. È appena nato un regalo sbagliato.
Non è una poesia di Carducci, ma l’atroce realtà di tutti i Natali. Poveraccio, mi fa una pena sotto quegli sguardi, e tra la sera del 24 e il pranzo del 25, ne sono nati parecchi, tutti fratellini sparsi in giro per il mondo come brutti anatroccoli in cerca di una madre qualsiasi. Stavano tanto bene in una vetrina, perché qualcuno è andato a disturbarli? Stavano lì, con il loro nome e cognome pronti a dare gioia a qualcuno, quand’ecco avvicinarsi minaccioso un imbecille, il loro futuro padre per un attimo, cioè colui che l’acquisterà con disattenzione per regalarlo a una persona che con quel regalo non c’entra niente. Cosa porti a essere così sciatti non si sa: fino a quando si tratta di fare un regalo a un bambino che non capisce niente, passi... anche se in realtà c’è nascosto l’imprinting che già registra chi ha regalato il carillon squinzio made in China, per vendicarsi tra trent’anni regalando un pacco di caffè da poco alla suocera. Ma quando si fa un regalo a un adulto non si può più regalare una cosa sbagliata, con la scusa del “pensierino”: una contraddizione in termini, in realtà non ci hai pensato nemmeno un attimo e mi hai regalato una cosa che mi repelle e che non userò mai o che riciclerò. La somma arte del riciclo è una specializzazione delle persone più attente, quelle che da lontano, su una poltrona, osservano il disgusto di chi riceve, ragionando su chi invece farebbe salti di gioia alla vista del regalo in questione. Sono persone molto intelligenti, osservano, ascoltano, tutto l’anno, ecco perché poi sono in grado di suggerire a chi lo riceve, con un filo di voce per non farsi sentire dagli altri “sai a chi può piacere?”, fornendo una soluzione e molto probabilmente una bellissima figura a chi seguirà il loro consiglio. Un lampo si accenderà sul viso del “ricevente” e il regalo verrà messo in hangar. Alla prima occasione utile, anche fosse soltanto un pranzo da amici con gli avanzi di tortellini, faraone, spigole e gamberoni (tutti riciclati giustamente pure loro), e tra i racconti dei rispettivi e noiosi pranzi, conditi da aneddoti relativi ai comportamenti di chi ha superato gli 80 (tranquilli, ci arriveremo pure noi a certe assurdità) le porte di quell’hangar si apriranno per far spiccare il volo a quel povero regalo sbagliato, che da brutto anatroccolo si trasformerà finalmente in un bellissimo cigno! Insomma tutto questo per dire che non è il regalo a essere sbagliato.
Ma la persona che lo fa.

mercoledì 21 dicembre 2011

Aria di Natale never again


L’aria di Natale è un bluff. Non esiste, si sa: non ha un odore, non ha un nome vero e proprio, non ha un indirizzo, non ha niente, non esiste. Basta. Allora vorrei sapere di cosa stiamo parlando quando un amico incontrato per strada ci dice “Quest’anno l’aria non la sento, boh, chissà perché...”. In realtà sono anni che non la sente, perché quando ancora l’avvertiva andava in giro per negozi con i guanti a manopola stretti nelle manone calde dei suoi genitori e chiedeva ogni 5 secondi “questo lo chiedo a Babbo Natale, e pure questo, e pure questo!”. I genitori lo strattonavano via dalle vetrine e con gli occhi dicevano al negoziante “passo dopo”. A scuola preparava tanti pupazzetti con la maestra, faceva i disegni della slitta di Babbo Natale e imparava che non erano cervi quelli che la tiravano, ma renne! A casa aveva preparato l’albero: un abete piccolo ma vero, quelli di plastica ancora non esistevano, con le palle di vetro, ne rompeva una all’anno se andava bene, rendendolo negli anni sempre più spelacchiato. A passeggio una zia lo portava a vedere le mostre dei presepi napoletani ma lui non li capiva e preferiva quello di casa con le casette con il tetto storto, le pecore piccole che s’incastravano con l’erba fatta di muschio, il cielo di carta viola scuro con le stelle dorate. Mentre il nostro amico comincia a piangere passa uno zampognaro, o quello che ne rimane, cercando non di suonare (mica lo sa fare!) ma d’imitare male un “Tu scendi dalle stelle” per sentire che esce fuori da quella bestia di zampogna lacera e consunta. Un ottimo pretesto per finirla con questo suo sfogo e salutarlo. Ma all’angolo, a UN angolo (non a tutti come oggi tutto l’anno) c’è un caldarrostaio indiano e già che ci sei gli lasci un foglio da 10 euro, ti bruci la lingua, la castagna non sa di niente, una ha il verme, una è dura, ti sporchi la mano, non sai dove buttare il cartoccio. Allora entri in un negozio fai una fila di mezz’ora alla cassa per comprarti il cd di Bublé con le canzoni di Natale, torni a casa e magari qualcuno ti apre la porta. Mentre lo infili nel lettore dài un sguardo in salotto, fa un bel calduccio, l’albero finto è tutto acceso, sul cellulare cominciano i primi sms cui non risponderai e tra le mail ci sono soltanto auguri di gente che non conosci. Ma dalla cucina viene l’odore del brodo per i tortellini e mentre lo avvicini alla bocca, rovente, pensi che dell’aria di Natale dell’amico tuo tutto quello che rimane è un brodo caldo. E va bene così. Tanti auguri!

venerdì 16 dicembre 2011

Guerrucci, l'uomo che sussurra agli stereo


A Roma, in Prati, c’è un posto che andrebbe scolpito nelle rubriche di tutti. È a Via Simone de Saint Bon, ammiraglio (ce ne sono molti a Prati), con una scritta anonima sull’insegna: Assistenza HI-FI. Entrare in quell’antro e uscirne stravolti è un’esperienza che non si dimentica. Perché lì dentro si riparano gli “stereo”. Ma certo, chiamiamolo ancora una volta così, come quando ce lo regalarono al liceo, quell’insieme di giradischi, amplificatore, piastra e casse acustiche, che collegato da cavetti, ci ha fatto sentire la musica che ci piaceva e che ha formato il nostro gusto, come mai più niente ci è riuscito. Non è un’assistenza come siamo abituati a vederle oggi (basta dare il codice e ti sostituiscono TUTTO il telefonino). No, qui dentro ancora si riparano oggetti meravigliosi di un’altra era tecnologica persi nello sgabuzzino di casa. E chi ci riesce è un uomo, Mario Guerrucci, uno di quegli uomini che, cosa rara oggi in tutti i campi, sa dove mettere le mani, e quindi parla italiano con i condensatori, i transistor, i circuiti integrati, conosce le unità di misura, i watt, i Farad, gli ohm, conosce i pezzi, le cinghie, i cursori, piegandoli alla sua volontà per restituirceli di nuovo funzionanti. Andarci per portargli un giradischi bloccato o un amplificatore muto non è frustrante, perché raramente Mario risponde “No, non si può, non lo so” come oggi qualsiasi negoziante risponde. Male che va gli può scappare un “vediamo che si può fare” che c’illumina di speranza, o più spesso un “chiamami la prossima settimana!”. La moglie Maria Grazia, l’ancella di guardia all’antro, sferruzzando una sciarpa senza fine, raccoglie tutti gli sfoghi dei clienti del tipo “funzionava tanto bene da decenni e poi puf!, si è rotto!”, dà una ricevuta e congeda velocemente. Riparare lo stereo è un viaggio dentro noi stessi perché in quegli scaffali allineati uno per uno in verticale ci sono centinaia di “pezzi” che se potessero parlare racconterebbero di come, sconquassati da acne giovanili, mettevamo trepidi il braccetto su un disco dei Pink Floyd, sperando che in 14 minuti la biondina del “I A” ci stesse, o di quando il nostro Luxman da 35 watt per canale sparò tutta la sua potenza al massimo dalle Indiana Line sulla nostra versione di Tacito, uccidendola, poveretta. Questi strumenti una volta riparati da Mario (e che se non ritirati dai soliti pigri rischiano di diventare lapidi al cimitero) custodiscono ancora quelle sensazioni e sono pronti a ridarcele con la stessa fierezza anche oggi. E sapete perché? Perché FUNZIONANO!

Guerrucci, l'uomo che sapeva parlare agli stereo

Guerrucci, l'uomo che sapeva parlare agli stereo

mercoledì 7 dicembre 2011

Midnight in Rome


Lo splendido film di Woody Allen “Midnight in Paris” mette sullo schermo una delle domande che ci facciamo durante le cene riuscite, non quelle dove si è chiesto notizie di coso o di quella per fare pettegolezzi, perché non ce ne è stato bisogno né quelle dove si è riso parlando male di qualcuno non presente, che “l’ha combinata davvero grossa a ‘sto giro, ma come si fa?”, né quelle dove non si sono sollevate polemiche inutili, o dove non si è discusso tra madri e figli. Ma quelle cene quelle dove si sono fatte battute molto divertenti: basta tirare fuori una domanda tipo “che cosa ci fareste se doveste vincere 100 milioni di euro al Superenalotto” per stare bene. Un’altra domanda evergreen è “in quale epoca vi sarebbe piaciuto vivere”. Tutti si lanciano nella loro preferita, con gli occhi che brillano di desiderio, ammantandola di magia, di riferimenti più o meno azzeccati, di sogni e di aspettative mal riposte: senza Stilnox negli anni 30? Ma siamo pazzi? Fino a quando uno degli invitati dice la sua, per ultimo, è quello che forse è stato un pochino al margine di questa bella cena, quello che non ha fatto commenti ficcanti, e mentre parla lo si guarda tutti un po’ storditi dal vino pensando “ sentiamo adesso questo che dice...”. E che dice? “A me va bene la mia!”. Purtroppo ha ragione lui, spegnendo i nostri sogni a differenza di Woody Allen che ce li ha fatti accendere con la grazia di chi ha raggiunto 75 anni. Ma purtroppo lo dice quasi con un grugnito chiudendo la conversazione, e forse anche la serata: gli altri commensali, con lo sguardo improvvisamente guasto guardano l’orologio, pensando che ormai è tardi e che domani è domenica e una volta ci si riposava, invece domani devo portare mio figlio a calcio contro quelli del “Villa Flaminia”. Il padrone di casa pensa invece che forse non è più il caso d’invitare questo che non parla mai e quando parla azzera tutto, e gli chiama un taxi, perché nessuno vuole accompagnarlo: non gli danno la sigla ma con un saluto frettoloso gli dicono “adesso arriva, scendi!”, per mandarlo via e fare un commento anche su di lui. Ma il taxi tarda e nel frattempo comincia a piovere, come nel film: lì si dice che Parigi forse è ancora più bella con la pioggia, figurati Roma, no? E sarà proprio grazie alla pioggia e all’attesa che non potrà fare a meno di notare quella biondina senza ombrello e che si fiderà di lui quella sera nell’accettare un passaggio su un taxi da uno sconosciuto. Che vuole vivere il suo tempo. Oggi.