lunedì 22 marzo 2010

Mina70


Mi dici “Mina70” e che ti rispondo? Che è un bel titolo per un album. E subito dopo penso che un altro pezzo dell’Italia più bella del mondo, quella in bianco e nero, avanza inesorabilmente. Del resto, nei miei ricordi, Mina a colori non esiste, tolto quel giallo cedrata di qualche passaggio tv del come eravamo, cioè gente che beveva la cedrata, (peraltro buonissima, avete mai provato?). Infatti i tre flash indimenticabili che vedono Mina con Alberto Sordi, Alberto Lupo e Toots Thielemans, scolpiti nelle sinapsi che ci hanno inizializzato a 10 anni per tutto il resto della nostra vita, sono in uno smagliante bianco e nero: i colori dello smoking, di un abito lungo da sera, i colori dell’eleganza senza compromessi. Un giro su YouTube e ci rifacciamo gli occhi e le orecchie. Forza!
Mina, Alberto Sordi, siamo a Via Teulada 66, Roma, gli studi della Rai, dal numero 1 dei quali va in onda “Studio 1” per l’appunto, diretto da Antonello Falqui. Un annuncio: “Signori: Alberto Sordi!”. E basta! Pazzesco. La scena è tutta di Alberto. E Mina sta mezzo, ma solo mezzo, passo indietro. Parla solo lui, ride, canta, scherza con il pubblico, e tocca. Sì, tocca Mina, le prende le mani, gliele bacia, e poi le braccia, gliele stringe sulla piega dei gomiti, non la molla un secondo, l’abbraccia per i fianchi e non riesce a staccarsi da lei, il pubblico rumoreggia rosicando per la grande confidenza ostentata fino a quando Alberto non esplode prima con un rimprovero “Aho, io so’ l’ospite d’onore!” e poi con l’ormai classico “Fatti vedere bene da vicino: sei ‘na fagottata de robba!”. Mina subisce divertita e imbarazzata, si schermisce dalla valanga di complimenti e regge con un pudore d’altri tempi agli assalti di Albertone ma soprattutto gli permette di fare il suo numero senza guardare, una volta che è una, in telecamera, o interrompendolo, niente. Lo guarda e lo fa fare. Da vera padrona di casa. Da quella partecipazione, oggi un’ospitata, abbiamo imparato a stringere una donna al nostro fianco, (magari per sempre), come fa Sordi, in smoking, nero, con una donna vicino in abito da sera, bianco. E questo per me è l’unico modo di entrare la sera in una casa per una cena. Fatelo anche voi: saremo tutti più belli. In bianco e nero.
Lasciamo Via Teulada e spostiamoci in Via Col Di Lana, al Teatro 10 (che è il nome “tecnico” del Teatro delle Vittorie). Improvvisamente, dopo un saluto straordinario: “Alberto Lupo vi saluta e se ne va”, quello stesso uomo irrompe da destra in quel mobile di bachelite nera appoggiato su un carrello a due piani di cristallo che abbiamo in un angolo del salotto con una lucina sopra accesa, un apparecchio televisivo dalla marca futurista BRIONVEGA! Quell’uomo comincia a parlare al vuoto chiedendosi che cosa gli succede quella sera. Ma a sinistra entra una donna che ha già tutte le risposte per fargli capire che è finita, e che tutto quello che potrà dirle quella sera non servirà a niente anche se quell’uomo si è appena accorto di essere stato un buffone con lei. Con lei! Con Mina!
Dietro questo numero fantastico c’era la “solita” magica regia di Antonello Falqui che prevedeva che i due non si guardassero mai, con il fedifrago che chiedeva pietà sussurrandole nell’orecchio una seduzione senza speranza a base di frasi assurde e ragionamenti da ultima spiaggia: “si spegne nei tuoi occhi la luna e si accendono i grilli”. Lei continua a cantare nient’altro che la pura verità, senza mai guardarlo. La verità di una storia tra un uomo che dopo mille errori finalmente ne prende coscienza e una donna che ha pazientato troppo. Da quel momento nessuno di noi farà mai più errori simili con una donna. Sapendo che una volta commessi ogni tentativo di riconciliazione si ridurrebbe a una serie di patetiche scuse e giustificazioni, insomma “parole, parole”.
Ora che me ne accorgo in questi tre flash è rappresentata una parabola di una donna: nel primo si lascia sedurre, nel secondo fa capire che ormai è tempo perduto, nel terzo decide di chiudere. Per sempre. “Non gioco più” è la sigla, finale, dell’ultimo varietà di Mina e della televisione italiana: “Milleluci”. Di chi è la regia? Uh, di Antonello Falqui! Da dove va in onda? Uh, dal Teatro delle Vittorie! Il più grande armonicista dei tempi moderni Toots Thielemans (per annotarmi il suo pazzo nome e cognome dai titoli di coda che scorrevano, lenti all’epoca non come un FrecciaRossa oggi, ci ho messo tre puntate tre) è in piedi davanti all’orchestra diretta da Gianni Ferrio e attacca una linea struggente che non fa presagire niente di buono. E infatti, annoiatamente appoggiata a uno sellino fumando una sigaretta con il bocchino una platinante Mina sottopeso, con gli occhi più belli e tristi che una donna abbia mai avuto in un’occasione del genere, ci avvisa di quello che ha già deciso. E io non posso non pensare alla grande gioia interna con la quale cantava questo ritornello ineluttabile che per lei preludeva finalmente alla liberazione da tutti noi che ancora la osanniamo oggi a Mina70. E cioè una donna che ha creduto e vissuto nell’era, ed è giusto chiamarla così, della canzone, quella vera e propria, quando una canzone non era altro che belle parole da ricordare come una poesia, e musica da cantare come una melodia che rimaneva avvinghiata alla memoria tanto da diventare un classico al primo ascolto, e non un “pezzo” accompagnato da video musicali che seppure con scenografie e coreografie di qualità, aggiungono solo fuffa al vuoto della song a colori. Quei colori che (lo vogliamo dire?) ci hanno proprio stufato. Una foto digitale a colori di un matrimonio non sarà mai bella quanto una in bianco e nero. E su un tavolo in salotto ce n’è ancora una, che nemmeno s’ingiallisce dopo tutti questi anni, a parlare di un amore mai finito anche se assente. Il nostro con Mina.

1 commento:

* ha detto...

Una volta mi dissero che quelli della mia generazione (anni '70) sarebbero stati gli ultimi ad avere ricordi fotografici in bianco e nero della propria infanzia. E' vero, e io mi stimo da morire per questo ;-)