lunedì 26 settembre 2011

Un certo matrimonio


La scusa per andare a un matrimonio è quella che tra amici e parenti c’è sempre qualcuno che ti dice “magari conosci la donna della tua vita!”, ma non succede mai perché ai matrimoni difficilmente ci vanno ragazze che hanno bisogno di un matrimonio per conoscere qualcuno, ci vanno solo quelle che non vedono l’ora di sposarsi, quindi meglio evitare. Tra l’altro quel banchetto, preparato come se nessuno avesse mai mangiato nella sua vita, è un attacco ai valori di trigliceridi e colesterolo, autorizzato solo dall’evenienza, dal quale ci si riprende solo dopo giorni e giorni di acqua e minestroni in flebo. Quindi no e basta. Ma quando arriva l’invito, la partecipazione (io le conservo tutte, per controllare quante unioni hanno retto negli anni, ma ne parliamo un’altra volta), rappresenta ancora per un attimo la possibilità di assistere LIVE al momento in cui due persone si giurano amore eterno. È per questo che, banchetto o no, la cerimonia non andrebbe comunque mai disertata. C’è un gioco delle parti bellissimo, rispettato da tutti i personaggi con calore e sentimento. Il futuro sposo che arriva prima con qualche amico fidato (che la sera prima gli ha organizzato l’addio al celibato, hanno ancora i volti tumefatti dalla qualsiasi). I primi parenti, quelli che non si vedono mai (sono quelli più sovrappeso, sono gli stessi di Natale), la madre della sposa con le amiche, le amiche della sposa che si guardano attorno in cagnesco e poi, con il classico quarto d’ora di ritardo (la mezz’ora è appena appena tollerata, dai 40 minuti in poi sei solo maleducata) arriva la sposa in un’automobile comunque assurda in compagnia di un padre con in tasca l’assegno per pagare i musicisti e il fioraio dell’addobbo in chiesa. Dopo i saluti comincia la recita: stupenda! Entra il prete, allegro. Il padre parte con il piedino e accompagna lentamente sua figlia all’altare per vederla solamente da dietro mentre le lascia la mano per prendere quella dell’orco che l’aspetta là davanti come uno scemo. La madre di lui comincia a piangere, pensando “chissà come quella strega tratterà il mio cucciolo”, ma subito si riprende pensando a quante domeniche potrà rovinare a casa sua. La madre di lei non piange, pensa a quanto tempo dovrà dedicare ai pannolini e all’intrattenimento dei futuri nipotini, diventerà nonna presto. Il padre di lui pensa ai buffi che dovrà fare per aiutare suo figlio per mantenere questa nuova famiglia. Tutti ci credono. Sono meravigliosi. E tutti gli invitati si sentono come il 12° giocatore in campo, partecipando appunto a quest’orgia di sentimenti.
Ma giorni fa, in Puglia, a Monopoli, qualcosa è andato storto: alla domanda “vuoi tu ecc ecc?” lo sposo ha risposto con calma un bel “NO”. - “Vuoi ripetere figliolo?” - “Ho detto no”. - “Posso chiederti il motivo?”- “Chiedetelo alla sposa e al suo testimone!”. Cosa avreste dato per essere lì, spettatori di un’unica replica? Un po’ come essere stati una sera alla Bussola con Mina senza sapere che sarebbe stata l’ultima: fantastico, tutto all’aria, tutto a monte, il banco è saltato! E tra la rabbia, la disperazione e lo stupore generale, il mancato sposo è andato pure al banchetto, ma solo con i suoi parenti, a festeggiare il ritorno al celibato!
Dimenticavo: “la sposa era bellissima”. Si dice così, no?

lunedì 19 settembre 2011

Il primo giorno di scuola


Il primo giorno di scuola, o di quel che ne rimane, è la prima ineguagliabile “rottura” di qualcosa nell’animo umano. Qualcosa che si rompe definitivamente tra il cordone ombelicale (vero e psicologico) tra un bambino e il genitore che lo accompagna. All’asilo si era troppo imbecilli per capire che succedeva, il rotolino con la stella filante, tirarsi in faccia qualsiasi cosa, piangere sguaiatamente, insomma niente. No, alla prima elementare ci si va come si va in ufficio da grandi, come tuo padre, come tua madre. Si è trepidanti come quando ti fai un’iniezione per la prima volta, hai paura ma fino a quando non provi quell’ago malefico, non saprai mai se fa male veramente. Quella mattina, una volta era il primo ottobre e basta, l’aria a casa era diversa, tutti si alzavano un po’ prima, i vestiti da mettersi erano già pronti sulla sedia dalla sera precedente. Durante la colazione tua madre preparava un panino (pane burro e zucchero) da mettere nella cartella. Nella cartella c’era un corredo: un libro, un astuccio con le matite colorate (Giotto, l’odore straziante di quel legno ci perseguiterà tutta la vita), un barattolo di Coccoina, (altro odore capace di farci piangere oggi all’istante) e basta. Ed era tutto, sempre per la prima volta, di proprietà, la nostra, che non fosse un giocattolo. No, queste erano cose serie. Attenzione adesso, un’automobile esce di casa, dentro il cast è completo e il silenzio è assordante, rotto solo dall’entrata delle marce e dall’aumento dei giri del motore. Tutti all’interno sanno che sta per cominciare una cosa importante e le domande curiose del bambino non vengono soddisfatte dalle risposte vaghe dei genitori. Si arriva fuori da scuola, e solo per il fatto che c’è gente lì davanti, torna un po’ di allegria, tanto per vedere chi c’è. Qualche amico dei genitori, vicino di casa, con suo figlio attaccato come un panda all’albero, insomma gli sguardi s’incrociano tra facce già viste e volti completamente sconosciuti, tra i quali, gli unici sorridenti, quelli delle maestre che anche loro ricominciano oggi un quinquennio di vita con bambini di cui non sanno nulla e che alla fine dell’ultimo anno conosceranno meglio di chiunque altro, per sempre. Tutti raccolti nel cortile per capire in quale classe si deve andare inizia uno psicodramma: bambini che cercano con lo sguardo qualche amichetto dei giardinetti, bambine attaccate alle madri, maestre che guardano fogli di elenchi, genitori che si rassicurano della sezione, e un uomo che guarda la scena in attesa, come una specie di Caronte, di chiudere il cancello. In un attimo, senza un perché, le mani dei bambini allentano la presa da quelle molto più grandi dei genitori che improvvisamente si sentono abbandonati, il cancello si chiude, i bambini danno le spalle lasciando agli sguardi di chi li segue da dietro la visione delle cartelle colorate. Caronte chiude a chiave e davanti a lui ci sono solo persone che piangono.
La loro vita è finita. Comincia quella dei figli.

domenica 11 settembre 2011

Quando finisce un'estate


Dall’oggi al domani, è così che finisce l’estate. Non rispetta la sua data ufficiale delle cose tipo equinozio e solstizio (la differenza la sai solo alle elementari, poi te la scordi insieme alla tabellina dell’8 e ad altre centinaia di cose che impari troppo presto). Non aspetta il ritorno dalle vacanze, (si torna a lavorare, ma l’estate non è finita, te ne accorgi dagli impiegati di tutti gli uffici vestiti come in uno stabilimento pur di sfoggiare il tatuaggio nuovo). Non aspetta nemmeno il cambio del tempo (può venire giù il finimondo, ma un’ora dopo fa caldo di nuovo). No, l’estate fa come le pare, e quindi improvvisamente finisce, senza preavviso. Ti alzi una mattina, ti fai la doccia, vai in ufficio, leggi le mail, lavori, pausa pranzo, telefoni, brighi, palestra, spesa, figli, cena, letto e il giorno dopo ricominci da capo mentre l’estate finisce, da sola, dentro di te. Magari il barista non ti ha fatto lo stesso saluto, o per un momento l’hai visto che non si ricordava qual era il “tuo” solito; forse al supermercato cercavi le pesche e hai visto che ci sono già le arance (dall’Argentina); ti hanno fatto una multa al motorino e cercando un vigile dal volto familiare scopri che li hanno cambiati tutti quando tu non c’eri (che è un po’ come se ti cambiano la maestra all’ultimo anno). In tutti questi microtraumi ti sembra di fermarti, in trance, sull’orlo di un precipizio: sei salvo, ma stavi per morire. È quindi quell’attimo immenso che ti vede riflettere in un limbo bianco nella tua testa quando tutto attorno a te sembra avvolto dall’oscurità più profonda. È finita l’estate, se ne è andata anche quest’anno, l’estate si è rotta, l’estate, in una parola, è morta. Questa stagione che deve la sua fortuna alle scuole chiuse, è la responsabile di tutte gli struggimenti che gli artisti da Bruno Martino (“Estate, sei calda come i baci che ho perduto”) fino a Franco Califano (“E la chiamano estate, questa estate senza te”) hanno messo per iscritto nelle loro canzoni. Quando le sentiamo ci si gonfia il cuore perché tra le pieghe di quei versi è ovvio che ci siamo noi e i nostri ricordi, soprattutto quelli più banali, come quelli di un’estate, appunto, al mare. Ma alzi la mano chi di noi, quando aveva il cervello in pappa, quando i neuroni erano ancora pronti a moltiplicarsi, non ha vissuto momenti con i grilli, le lucciole, l’aria tiepida, la risacca del mare, il pattino sulla spiaggia fredda e umida, con la biondina di chissà dove. È questo il motivo per cui sentiamo qualcosa che si rompe dentro quando l’estate ci saluta: sembra sempre un addio e mai un arrivederci. Anche perché i ricordi non saranno più quelli, così luccicanti, tanto è vero che cosa ricorderemo di quest’estate 2011? Se diamo uno sguardo ai giornali vecchi prima di buttarli nella differenziata, noteremo in ordine sparso: l’uragano Irene che ha risparmiato New York, l’Euro e le borse che invece ancora ci stanno in mezzo, e la “valanga di chimica” di Vasco Rossi. Ma oggi, 10 anni fa, l’estate di tutto il mondo finì, forse per sempre, a Manhattan.

lunedì 5 settembre 2011

Un tè avvelenato


Prima di fare il conto di quel che rimane di quest’estate 2011, arriva pelo pelo l’ultima follia che ci permette di chiacchierare con gente che conosciamo poco in una delle prime cene pre-autunnali, prove generali di quelle che ci vedranno sicuri protagonisti. Si tratta dell’idea della Twinings, uno dei marchi più belli del mondo, di cambiare la formula a uno dei suoi tè. E fin qui va bene: possono farlo. Ma se decidono di farlo al principe dei tè, e cioè all’EARL GREY, l’unico tè che ti fa sentire ricco anche senza una lira, come se avessi a casa Anthony Hopkins come maggiordomo anche se non hai i soldi per cambiare la candela al motorino, allora capisci che a Londra davvero non hanno niente di meglio da fare. Ma insomma! L’Earl Grey NON si tocca, perché è un’icona e basta, troppi ricordi ancora evoca quella scatola in metallo vicino al malto Knapp nella cucina in casa dei nostri genitori. Ma non è certo una novità il tentativo industriale di provare a farci cambiare le abitudini, o meglio i “gusti” delle nostre abitudini (se solo pensate a cosa non succede ogni volta che le nuove mogliettine provano a cucinare un piatto qualunque ma sacro alla suocera). Vi ricorderete senz’altro quello che successe alla Coca Cola, (tutto sommato l’equivalente bevanda nazionale in America), quando qualche pazzo decise la stessa cosa. Volevano farla più dolce in Europa come già lo era da loro, ma tutti urlarono, e poco dopo rispuntò sugli scaffali con il sottotitolo “classic”. A Londra, pochi lo sanno, qualche anno fa successe un altro scandalo del genere ma che non ha avuto la stessa risonanza. La Dunhill, la prestigiosa marca di pipe e affini, negli anni aveva prodotto anche un profumo, un’eau de toilette, nemmeno facile a trovarsi. Eppure dopo un certo numero di anni, hanno pensato anche questi di cambiare fragranza e nome eliminando l’altra cui si erano abituati tutti, compreso il mio amico Piero Corsini che, usandola per motivi di autoplagio (Londra, Dunhill, Savile Row, l’agente segreto 007, Sean Connery, insomma l’impero Britannico in bianco e nero), scrisse una lettera infuocata al responsabile della linea profumi che si scusò promettendo di ripristinare la produzione e, garantendo una personale fornitura di quell’eau de toilette, gli spedì in regalo un paio di bocce formato famiglia. Allora? Come mai avvengono questi tentativi di cambiare gusti, fragranze e aromi cui siamo abituati? In realtà, alla Twinings sanno benissimo che le abitudini non si cambiano, sono loro i primi che non sostituiranno mai l’Earl Grey con il NEW Earl Grey nel segreto delle loro casette calde e confortevoli. Ma il marketing gli suggerisce di fare un po’ di carnival nella speranza che qualche nuovo palato ci caschi e magari diventi un affezionato nuovo cultore di un tè vecchio di pochi giorni. Sanno che noi continueremo a pretendere il nostro vecchio tè, e sanno anche che siccome tutti ne parleranno (come noi qui per esempio) confidano che qualcuno incuriosito li compri addirittura tutti e due per sentire qual è la differenza. Morale? Ne venderanno più di prima di questo sciagurato annuncio. Soprattutto in questi giorni, quando tutti noi impauriti stiamo facendo la scorta al supermercato con la scatola da 50 bustine!
Per me comunque “Just a cloud, please!”.