lunedì 28 marzo 2011

In loving memory of Liz Taylor


Una domenica di tanti anni fa a Roma, a Piazza Euclide, nel cinema parrocchiale Euclide, sotto la chiesa di Sant’Euclide, no scherzo, Sacro Cuore Immacolato di Maria, (ma a tutti nota come la chiesa di Piazza Euclide), ho visto un film intitolato “Mercoledì delle Ceneri”. Starring la mia prima Elizabeth Taylor, con Henry Fonda e pensate un po’ Helmut Berger, tutti insieme in un filmaccio, ambientato a Cortina, all’Hotel Miramonti (lo stesso del Conte Max con Alberto Sordi) ma con una straziante colonna sonora di Maurice Jarre, in cui Liz cercava di riconquistare il marito, senza riuscirci peraltro, a colpi di chirurgia plastica: un’idea pioneristica visto che eravamo nel 1973, e qualche donna deve avere imparato bene la lezione (Henry chiede il divorzio lo stesso) se oggi dedica liposuzioni e rifacimenti vari per piacere a qualcuno di molto più giovane in palestra. All’epoca non sapevo che quella donna aveva trattato uomini, matrimoni, divorzi, gioielli, vestiti e bottiglie di whisky come una presunta star tossica di oggi riuscirebbe mai ad avere il coraggio anche solo di pensarlo. La domanda infatti è questa: “Hey, Kate (sarebbe Kate Moss), che ne dici se ti sposi 8 volte, di cui due con lo stesso uomo, una con un politico, una con un miliardario, una con un muratore, una con bòh vallo a sape’, poi ti divorzi da tutti, ti bevi la qualunque in tutti gli alberghi del mondo, vinci 2 Oscar, ti fai regalare gioielli che poi ti cascano nello scarico del lavandino, rompi tutti i piatti del mondo, e a 79 anni muori con la compagnia di un cane da salotto? Eh? Che ne dici, la metti la firma? Dài!”. Forse è la volta che Kate Moss si fa suora, no? Perché in fin dei conti questa è stata la lunga vita in due righe di Liz Taylor, una vita inimitabile per i tempi attuali che non sono più quelli appunto dei grandi alberghi delle capitali del mondo, delle liti furiose a base di bourbon e scotch poi ricomposte da Bvlgari a colpi di collier e solitari. E anche una vita spaventevole, perché ci voleva coraggio a fare tutto quello che Liz ha fatto incurante dei produttori, degli amici, degli uomini che ha avuto accanto nel bene e nel male. Oggi chi ce l’ha un coraggio simile? Sfondare un albergo in preda a chissà che, è ormai appannaggio anche di un qualsiasi poveraccio in una notte brava di cui pentirsi senza poi avere i mezzi per affrontare il risveglio. Invece Liz, anche sul letto di morte ha dimostrato di essere “tosta” come un fustagno pelle di diavolo, e ha chiesto di essere sepolta accanto a Richard Burton, dalla cui voce costruita a forza di recitare i sonetti di Shakespeare controvento su uno scoglio senza gridare, rimase sedotta per sempre. Liz ha così seguito il consiglio che ne “La gatta sul tetto che scotta” un impossibile Paul Newman e i suoi addominali, le urlava: “e allora salta Maggie, salta, tanto i gatti cadono sempre in piedi!”. E Liz stavolta è saltata, per sempre: per l’ultimo matrimonio.
Con il suo Richard.

martedì 22 marzo 2011

Al volante niente regole


Al volante non ci sono regole se non le nostre, giusto? Aggiungo che se guidiamo la macchina odiamo i pedoni, se siamo pedoni odiamo le macchine, se siamo su un autobus odiamo i motorini, se siamo su un motorino invece odiamo i taxi. Se siamo su un taxi, odiamo tutti compreso il tassista. Ma comunque, diamo uno sguardo in giro: chi guida una macchina di fatto non guida ma parla al cellulare, è in torto perché è comunque distratto, certo se ha l’auricolare è meglio, ma non bluetooth, se no è un soggetto, e già lo vedi che parla solo di cose di lavoro con un lessico che ti orripila. Se siamo in motorino e non mette la freccia prima di tagliarci la strada e vediamo che sta al cellulare e quindi guida con una mano sola cosa possiamo urlargli? Tutto. Giusto così. Se invece siamo noi in motorino con il cellulare infilato nel casco e guidiamo in automatico senza pensare a dove stiamo andando (ci ritroviamo in palestra invece che dal commercialista), matematicamente una vecchia che parla al cellulare con la figlia per chiedere com’è andata l’ecografia, attraverserà la strada NON sulle strisce, quindi possiamo darle una suonata rasente timpano orecchio destro da infarto urlando anche il rimprovero: “... tèntaaa!”.
Se siamo a piedi, saremmo pedoni, quindi ci accorgiamo cos’era l’uomo prima delle macchine, e tutti i nostri diritti saranno calpestati sul marciapiede coperto dai motorini (come abbiamo fatto noi ieri al cinema), dalle macchine all’angolo (come abbiamo fatto noi ieri al ristorante), dai camion che scaricano le mutande da Intimissimi, (come abbiamo fatto noi ieri... no!). Insomma difficile camminare sui marciapiedi, allora andiamo per strada, ci squilla il telefono, rispondiamo e non ci accorgiamo di uno che passa in motorino accanto a noi come un rasoio per togliere la polvere sulla giacca e ci suona nell’altro orecchio una tromba da curva sud degli anni 80. Se andiamo su un autobus ci rendiamo conto quanto odiamo tutti i motorini che vanno sulle corsie preferenziali, come noi ieri a Via Veneto, tanto il vigile non c’è e invece sì, ma da Doney a prendere un caffè, o meglio stava, perché dopo due mesi arriva la multa (“ma ‘ndo stava questo?”. Da Doney, appunto). Se siamo in bicicletta in mezzo a una strada, magari vicini a una corsia preferenziale con l’80, quello lungo, il Jumbo, non ci saremo mai sentiti così indifesi nemmeno all’esame di maturità. Quindi no. Però la gioia di andare contromano ovunque, di lasciarla ovunque è impagabile. Se siamo in taxi, e l’autista è simpatico, quello cioè che non frena al verde nella speranza che diventi giallo, facciamo il tifo perché metta sotto tutti quelli in motorino che gli sfrecciano accanto, ma proprio tutti: “li butti giù come birilli, li possino!”. Se è antipatico, cioè non ha l’aria condizionata, o ti impedisce di aprire il tuo finestrino e quindi glielo devi chiedere tu, ci tocca infastifirlo con le strade da prendere, la migliore è sempre e solo la nostra “questo mi vuole fregare!”. Ma se prendiamo la metropolitana , non potremo non metterci l’iPod e ci sentiremo fichissimi, saremo cittadini del mondo in un attimo ci sentiremo a New York, tutto ci sembrerà un film e in quel momento entrerà una ragazza con l’iPod nano di seconda generazione, proprio come il vostro, lo noterete entrambi, un sorriso, e ancora non lo sapete, ma è la donna della vostra vita. Buon viaggio!

lunedì 21 marzo 2011

Non siate emotivi!


Se c’è una cosa che non difetta a noi italiani di 150 anni, ma forse anche di prima, è l’emotività. Ci manca tutto il contrario, il sangue freddo, la gestione di un’emergenza, di un dolore come di una gioia. Per noi è tutto un fuoco d’artificio. È il bello e il brutto della nostra indole. L’unica persona fredda che abbiamo mai visto da vicino è stata forse quel compagno di scuola, quando ci ha dato una spinta per le scale per stare vicino a quella più carina della classe. È per questo che stimiamo tanto, e a volte anche con un certo senso di colpa, chi riesce a mantenere ferme certe emozioni. Gli inglesi per esempio, a parte la lingua che possiedono, freddi, gentili, cortesi, ma freddi. I loro agenti segreti, che meraviglia! 007? Magari! Con quelli lì stai a posto! Ma noi qua in Italia, ce lo rimproverano tutti, “siete il paese di Pulcinella”, e di Arlecchino aggiungo io, e Alberto Sordi lo diceva pure lui: “Gli Italiani? Dovremmo essere tutti portieri di albergo, quello sappiamo fare bene.” Non aveva tutti i torti, avendo conosciuto proprio quell’Italia lì, quando Disneyland ce l’avevamo in casa con i nostri panorami mozzafiato, e due spaghetti pomodoro e basilico, o due linguine al pesto o la parmigiana di melanzane. Siamo cerimoniosi: “serve un taxi? Pronti!”. Complici: “le serve un accompagno, Dottore?” Comprensivi, disposti a chiudere un occhio, chi è che non sbaglia, a fare un pettegolezzo, ma così per ridere, senza malizia... Ma gli inglesi dove vanno a mettere il cuore in vacanza? In Italia, in Toscana, tanto da ribattezzarla Chiantishire, per forza, da loro piove sempre. Invece vuoi mettere come stanno qui da noi? E come piangono quando sono finite le vacanze! E i tedeschi? In Germania, è vero, sono romantici, bè lo Sturm und Drang l’hanno inventato loro, Beethoven se non era romantico lui, Per Elisa, la Nona, La Pastorale dài, e scusa Goethe, ma stiamo scherzando? Però dove vanno in vacanza? S’accontentano anche di Rimini, gli basta il bagnino muscoloso, (“ma lo sai che ancora ‘ste tedesche ci credono?”). Gente dal carattere “freddo” che per avere un abbraccio caldo, ma caldo sul serio, deve venire in Italia, perché di sì. Perché noi siamo calorosi di nome e di fatto. Penso a tutti queste vere banalità, perché adesso ho visto come si comporta un popolo in una situazione di emergenza, chiamiamola pietosamente così. Questo terremoto in Giappone fosse accaduto da noi avrebbe fatto de L’Aquila un campo da tennis e “Roma l’avrebbe rasa al suolo” (Bertolaso dixit). Lo tsunami conseguente ha fatto saltare 4 reattori nucleari come tappi di champagne, nonostante siano stati progettati da gente che ha creato la Sony e la Toyota. Quindi ci chiedano pure di aiutare mandando sms dal divano, di organizzare concerti e schitarrate per raccogliere fondi, o anche semplicemente di disperarci, ma non di mettere da parte l’emotività. Perché quello proprio non lo sappiamo fare.
W L’Italia! (scusate, mi sono emozionato).

lunedì 14 marzo 2011

"Hai 5 minuti?"


Quando vi fanno questa domanda la realtà è un’altra: al vostro interlocutore ne servono in realtà almeno15. Sapete perché? Non possiede la percezione del tempo, più è piccola la richiesta, tipo “hai un minutino?” più è grande la bugia: gli serve un’ora. Ce l’avete voi? Dove? Me lo dite? Come un bambino per la prima volta davanti allo specchio si chiede “chi è quello lì?” così esiste gente che non sa dare un nome e un cognome al tempo che passa. Tardando come al solito, dicono “5 minuti e arrivo”: non ce la faranno mai e quando arrivano al ristorante stanno ancora al cellulare con i cascami della loro vita ridotta a brandelli, si perdono i pezzi, lasciano la bava dietro come le lumache. Stiamo parlando delle stesse persone che, stupidamente invitate da voi a cena, non appena gli aprite la porta d’ingresso non riescono a finire una frase per spiegare (e in realtà è una giustificazione) come mai hanno portato quella determinata bottiglia di vino, tre ore sul produttore, sul vitigno, sulla vendemmia, sul vinattiere, TUTTO SULLA PORTA D’INGRESSO! E tutti insieme a reggere quella bottiglia, voi con le vostre mani e lui con le sue, e magari è di prosecco che, nel frattempo di questa inutile spiegazione, SI SCALDA. Invece basterebbe dire “ecco una boccia di prosecco!” Due secondi. Grazie! Aprila! Finito! Passiamo ad altro, di veramente importante, no? Magari! Non gli puoi fare una domanda generica che arriva un resoconto dettagliato degli ultimi 5 minuti, vissuti da loro: e i nostri 30 per ascoltarli chi ce li ridà? Insomma a questi avanzi di adolescenza andrebbe insegnato il regolare svolgimento di una serata a cena, per non rovinare il normale flusso di pensieri di tutti gli altri, primi fra tutti noi. È una regola semplice: il menù va di pari passo con le chiacchiere e gli argomenti. Antipasto (salamini già affettati, schegge di parmigiano, olive belle grosse unte greche) ovvero saluti e convenevoli: “come stai bene, ti trovo in forma, questa gonna dove l’hai presa, ti sta benissimo!”. Si può rifare il dialogo tra Carlo Verdone e Mario Brega, “come so’ ‘ste olive? Greche!” un classico, funziona sempre. Primo piatto, ovvero i commenti delle notizie della settimana: “roba da pazzi, ma come fanno ad andare avanti (non importa chi, come fanno non si capisce mai), hai visto la benzina? E il mutuo? Lo sai che un amico mio è andato in banca a ricontrattare gli hanno fatto una pernacchia e allora lui...”. Secondo piatto, si entra in profondità con pettegolezzi su amici in comune: “hai saputo di Carlo? S’è lasciato. O meglio LEI l’ha lasciato, ma certo, poveraccia, mettiti nei suoi panni...”. Dolce, confidenze e problemi di vita in generale: è questo, e solo questo, l’UNICO momento in cui il vostro amico potrebbe parlare delle frattaglie della sua vita con aneddoti sulle chiavi, sui cellulari, sui portafogli con documenti e carte di credito, tutti invariabilmente persi per mille stupidi motivi. Invece starà parlando al cellulare con il figlio che già non vuole più vederlo per gli stesso motivi. Quindi, se vi cerca esordendo con un bel “Hai un minuto?”, la risposta sarà una sola: “NO!”.

lunedì 7 marzo 2011

Re per una notte


Nel 1983 ci fu un weekend al cinema nel quale uscirono due film che trattavano entrambi di show business, più esattamente del “sogno” di questo mondo pazzo dello spettacolo: il primo narrava un modo per entrarci da professionisti facendo una scuola o qualcosa che assomigliasse ad “Amici” senza sapere ancora cosa fosse; l’altro narrava il metodo dei mitomani per avvicinare le star dello spettacolo credendo di poter sostenere la loro stessa vita, ma da parassiti. Uno era “Flashdance” firmato da Adrian Lyne, futuro regista di “Attrazione Fatale” e “9 settimane e 1/2”, l’altro era “Re per una notte” diretto da Martin Scorsese, già regista di capolavori del cinema americano. Tutti volevano illudersi, per un’ora e mezzo almeno, sull’eventuale loro vita futura stile american dream, impossibile da noi in Italia: studiare, duro magari, per diventare un giorno qualcuno nella danza. Un venerdì di settembre a 20 anni con i sogni da inseguire. Anche quello di rovinare l’uscita con gente conosciuta da poco con un film per pochi intenditori (bagno di sangue in tutto il mondo): è proprio quello che successe preferendo, o meglio imponendo, “Re per una notte” che comunque aveva dentro un tale Robert De Niro. Questo film, amato molto come tutti i figli disgraziati dal suo regista, aveva la caratteristica di scattare una fotografia non solo ai veri e propri mitomani che vivono con ansia il loro eventuale contatto con l’oggetto delle loro attenzioni, ma di ritrarre tutti noi che volenti o nolenti se incontriamo per strada qualcuno che riconosciamo ci comportiamo sempre come visitatori allo zoo comunale. Avete mai fatto caso? Non ci sembra vero e ci avviciniamo a questo come a un Sacro Graal chiedendo una foto “per il ragazzino”, come scusa, in realtà ci vergogniamo di far vedere che mondo di emozioni ha scatenato nel nostro inconscio: lui non lo sa, ma a noi sembra evidente, no? IO HO PIANTO! TU SEI UN MITO! IO HO RISO! TU SEI UN GRANDE! No, lui non lo sa e non lo vuole nemmeno sapere, sta solo facendo la spesa, come tutti noi che ci stiamo rivelando ai suoi occhi: dei poveracci che si perdono nel deliquio...
A Roma in questi giorni c’è stata Martha Argerich, la più grande pianista vivente che suona il III concerto di Prokofiev con la stessa tranquillità che noi utilizziamo per buttare la pasta. Esiste un disco di questo III e del Concerto in sol di Ravel dove lei e un giovanissimo Claudio Abbado appaiono in copertina sul pianoforte a parlarne: lui a braccia conserte, lei con una sigaretta in mano. Sono andato in mezzo a dei pazzi che le urlavano tutto il loro amore, mentre lei appena uscita dall’ennesimo trionfo, dopo averlo suonato davanti a 3000 persone chiedeva solo un bicchiere d’acqua e di fumarsi una sigaretta in terrazza. Li ho odiati, ma ero come loro: un pazzo mitomane. Con una sola differenza: loro avevano visto “Flashdance”, io “Re per una notte”. Basta?