martedì 27 settembre 2016

Le ore di nessuno

Le ore di nessuno sono quelle del mattino presto o della notte tardi.
Il momento di trepidazione scatta quando ci si scaraventa sul letto dopo il venerdì notte passato in città in giro a far finta che nella nostra vita tutto vada a meraviglia. Ed ecco che sorge il sole del sabato mattina, ci si alza senza la sveglia e guarda caso, proprio oggi che non hai obblighi contrattuali, alle 6 sei un grillo “proprio oggi che potevo dormi’!”. Un frigo spalancato ti abbaglia con il suo neon mentre prendi il barattolo del caffè che stamattina ti preparerai con una lentezza magistrale. Te lo prendi un biscotto? No, sei uno straccio e vuoi che nel tuo stomaco sciacqui solo quella pozione magica, capace di farti capire che hai tutto il giorno per fare quello che ti pare, perché durante le  ore di nessuno non deve succedere niente, se non quello che hai deciso tu. Non apri le imposte, ti è bastata la luce del frigo, ma senti che dalle persiane chiuse filtra l’aria fresca del mattino, vuoi uscire di casa per fare un gesto che il computer ti ha tolto: comprare il giornale di carta. E andare al bar con la sua luce calda accogliente e quel profumo di strutto: guarda come te lo prendi un altro caffè, e pure il cornetto adesso te lo mangi, eh? Ma sei nell’ora di nessuno, la tua, e fai quello che ti pare.
Stamattina ti senti un altro, ti senti padrone del tuo tempo, puoi fare tutto quello che vuoi e mentre leggi il giornale pensi a tutte le magnifiche opzioni che ti si prospettano, te ne vengono in mente mille ma nessuna ti convince fino in fondo. Quello che hai bene chiaro in mente è quello che non vuoi fare: organizzare. Quindi no Ikea, no mare, no corsa al parco, no niente. Adesso leggi e basta poi vediamo, ma la testa non si ferma, non le pare vero di stare su una pista vuota dell’autodromo del tuo sabato, ma oggi quella testa deve capire che c’è solo una strada da percorrere, si chiama Via Te Stesso, non ti sembra possibile, ma il cartello proprio questo recita. Il caffè è finito, è il secondo della giornata, ne ordini un terzo, mentre ti accorgi che il bar si sta affollando (pure di sabato) ma dalle facce di quella gente passa quell’espressione che ti fa capire che anche loro hanno passato la tua stessa serata di ieri.
Invece nella notte, le ore di nessuno hanno un altro suono, quello del silenzio degli altri. Non devi difenderti da niente e se non da quella testa che al buio vede meno. Non trovi quel sonno di cui stanotte non senti la mancanza e giri per casa lentamente, e nulla di quello che vedi sembra avere un senso, anzi: pensi che tutto quello che hai non ti serve più. Pensi che una casa vuota e bianca è tutto quello di cui hai bisogno. Ma solo del tempo che stanotte è tuo e ci faccio quello che voglio.
Ma mentre rifletti, ti ritrovi in bagno con una chiave inglese per cambiare il filtro frangi-getto del lavandino del tuo bagno. Non guardarti allo specchio, non devi renderne conto nemmeno a lui, nell’ora di nessuno.
La tua.

martedì 20 settembre 2016

Regali che fanno la differenza

C’è stato un regalo che nella nostra vita ha fatto la differenza. Si tratta del primo che abbiamo ricevuto a Natale, non da quel buffone di Babbo Natale, ma da quello vero, cioè i nostri genitori.  
Pochi giorni prima c’era stato un 8 dicembre diverso dagli altri: mentre si faceva l’albero, da quelle bocche dei nostri genitori, è uscita per la prima volta la frase rivolta a noi figli:
- Allora? Che vuoi per Natale?... -  Noi, zitti zitti, abbiamo pensato “Ahà! Allora è vero che non esiste Babbo Natale, eh?”. Però abbiamo capito all’istante che non conveniva fare tante polemiche, ma sparare subito la richiesta congrua: un assegno in bianco! No, scherzo: bisognava fare  una richiesta che facesse loro credere che si era effettivamente “cresciuti” nell’ultimo anno tanto da aver meritato quell’Ansa ufficiale: “Babbo Natale non esiste”. Scelto il regalo, bisognava sapere tutto: dove si comprava, nome del negozio, orario, se il giocattolo era disponibile (perché poi alla fine era sempre e comunque un giocattolo), il colore, il prezzo, il codice fiscale del proprietario, il nome dei commessi, soprattutto quello più simpatico che avrebbe potuto assicurare uno sconto del 5% se l’acquisto fosse avvenuto entro il 15 dicembre. Insomma tutto. Fornite queste  informazioni seguiva, da parte dei veri Babbi Natale, un sorriso tra l’ironico e il sarcastico che comunque ci faceva stare con il fiato sospeso fino alle sera del 24. E finalmente sotto l’albero, spuntava inconfondibile il pacco del nostro primo regalo! Nel mio caso: un proiettore bipasso (8 mm e Super8mm). Era il mitico TONDO della Polistil, un oggetto di una bellezza stupefacente tra le mani di un bambino di 10 anni, un oggetto di design firmato da Lurani Cernuschi, ma comunque un giocattolo, tanto che la lampada era una Osram da 12 volt, (quando si fulminava la ricompravo dagli autoricambi perché era la stessa lampadina della luce di posizione della Fiat 500!)
Perché questo regalo ha fatto la differenza tra tutti quegli altri che avevo ricevuto? Perché non era figlio del pensiero genitoriale sempre  accompagnato dal dubbio “questo potrebbe piacergli?”, e non era il regalo imposto “questo va bene perché lo farà crescere”. Ma semplicemente perché quel proiettore era frutto di un desiderio: il mio! Piaceva a me da prima di averlo, l’avevo visto su Topolino, e mi piaceva. Basta. Lo voglio. Babbo Natale non esiste.
Certo che se poi i miei, durante l’acquisto, si fossero anche chiesti “come mai nostro figlio vuole un proiettore e non un razzo, un calcio balilla, una bici, un cavallo, un pezzo d’uranio?”, forse sarebbe stato meglio, noo?


PS: Esiste poi un altro regalo che fa la differenza. È il secondo. Si tratta di una veretta di diamanti by Bvlgari. Ma ne parliamo un’altra volta.

lunedì 19 settembre 2016

Chi ti conosce bene

Chi ti conosce poco in realtà è chi ti conosce meglio, perché conosce la parte più vera di te, cioè la peggiore.
Il buongiorno si vede dal mattino, no? E infatti lo scanner della tua vera personalità comincia proprio dal primo caffè al bar sotto casa, dove a volte nemmeno serve salutare se non con un sopracciglio, e i baristi al bancone ti guardano e ti osservano (spesso senza nemmeno volerlo) tutti i giorni della tua vita per 5 minuti e da quello che ordini hanno già capito tutto di te. La persona che loro preferiscono è ovviamente quello che del “un caffè” e basta, (comunque un “chiuso”), ma il resto della clientela è costituito da persone che ordinano varianti a tutto: un caffè corto, macchiato-caldo, macchiato-freddo, lungo, macchiato, corto-schiumato, cappuccino con latte tiepido, con latte a temperatura ambiente, con latte freddo, col cacao, oppure il peggiore di tutti: un bel cappuccino caldo! Perché, gli altri sono brutti? Oppure, un caffè lungo in tazza grande con un po’ d’acqua calda a parte...
- Un americano!
- No: non è americano, è all’americana!
Il cornetto, mal cotto, cotto male (che è diverso), cotto poco, liscio, vuoto, semplice, normale, pieno, de che? marmellata? quale? albicocche o amarena? un danese, ma senza uvetta, ma senza canditi, ma con la crema, ma poca, allora non lo prendere... insomma: come vuoi che ti giudichino? Hanno in mano tutte le tue paranoie, le insicurezze di cui sono figlie, tutte cose che con altri tieni nascoste per non fare brutte figure, ma al bar non ci stai attento! Solo a un amico puoi chiedere di avere la pazienza di sopportare tutti i tuoi difetti, è lui che può avere, dovrebbe avere, quell’indulgenza che si riserva alle persone con le quali hai condiviso talmente tante cose che ormai la confidenza è come quella che hai con te stesso. Quando avrai un dispiacere troverai sempre quella spalla sulla quale appoggiarti, ma quando avrai bisogno di un consiglio dove serve un po’ di distacco, l’amico è troppo coinvolto e non può avere quella lucidità richiesta dalla questione che poni. È troppo coinvolto, e quindi non vuole rischiare di addolorarti, magari per non perderti come amico.
Questo compito lo possono assolvere altri interlocutori, per i quali non sei un amico, sei un cliente. Insomma il peso netto di una persona lo si ricava da brevi, “brevi”, continuativi momenti vissuti insieme, con regolarità, in modo da tessere un filo che li leghi per emettere una sentenza. Spesso impietosa ma onesta.
Ecco perché quando ti vuoi sposare una ragazza per la quale hai perso la testa, fossi in te, la porterei prima al bar, farei ordinare tutto a lei, farei decidere tutto a lei, ma poi guarderei lui.

Il barista.

giovedì 15 settembre 2016

Una musica da eroi

Amico mio, c’è una domanda che voglio farti: cosa pensavi oggi, 30 anni fa, quando DOVEVI fare il militare (per altro nella tua città) e ogni volta che uscivi dalla caserma pensavi che stavi buttando il tuo tempo?
Avevi una macchina prestata da tuo padre che ti permetteva di correre a casa, dalla tua ragazza? Cos’era che ti faceva imbestialire in quel traffico delle sette di sera tornando a casa dopo il turno? So che facevi un gioco incredibile tra cambio, frizione e freno che solo perché era una Golf non si è sfondato tutto (o forse sì) e tu urlavi dall’abitacolo a chiunque non capiva le tue traiettorie (e come poteva) frenando all’improvviso, sgommando di rabbia per ribadire che tu ci avevi visto giusto, suonando il clacson per rimproverare la disattenzione altrui ai tuoi disegni delle magnifiche traiettorie che vedevi solo tu, solo per tornare il prima possibile a casa e fare una doccia, la tua doccia, per lavarti via tutta quella giornata uguale alle altre, e fare finta che nelle ultime 12 ore non fosse successo niente, e indossare una faccia presentabile a quella tua ragazza che ti aspettava con gli occhi ardenti e fare il maschio quando ti chiedeva come è andata oggi, rispondendole tutto ok, non è successo niente, quando invece avevi sofferto come un cane in mezzo a gente che non conoscevi, che con te non c’entrava niente e che non avresti mai più rivisto nella tua vita. Anche se con loro avevi passato il Natale, il Capodanno, la Pasqua e non con lei, e l’unico amico tuo era quel telefono a gettoni in fondo al corridoio del corpo di guardia che era diventato la tua casa per 12 ore al giorno (tu solo sai che quando la cassetta dei gettoni era piena il telefono non funzionava più ed eri riuscito ad avere il numero di casa di chi la svuotava per dirgli di venire il prima possibile, perché tutti voi lì dentro eravate isolati dal resto del mondo).
In quelle notti, quando tornavi infrangendo i limiti di velocità perché pensavi solo a lei, c’era una musica che ti accompagnava e che ti faceva sentire un eroe: era una musica triste, quella musica che si addice agli eroi, e ti faceva pensare che tutto quello che di penoso stavi passando non serviva a niente ed era solamente una perdita di tempo. Pensavi che nella tua vita non ci sarebbero mai più stati momenti così, ti sbagliavi perché poi, a ben vedere, nella tua vita questa musica e le sue suggestioni ti hanno sempre accompagnato, ma quei momenti hanno cambiato faccia, nome, sono diversi, e oggi si chiamano responsabilità. Tutte quelle che (forse anche giustamente) hai scansato sgommando per tornare in quella casa, per quella doccia, tra quelle braccia, ora ti sono di nuovo accanto, ora che hai trent’anni di più.
Il giorno del congedo, ti sei ritrovato da solo, dopo 365 giorni, davanti all’armadietto che aveva custodito il tuo costume di scena di un anno, la divisa l’hai regalata a quel caporale che sarebbe rimasto e la tua, insieme a tutto il resto del corredo, gli avrebbe fatto comodo. Tu non avevi gli strumenti per riflettere che stavi regalando un pezzo di te, perché quella divisa era tessuta di te e dei tuoi pensieri e chissà che qualcosa del tuo dolore e della rabbia non gli sia rimasta appiccicata addosso...
Ma cosa importa? Oggi, ti piaccia o no, non sei più quel ragazzo che combatte con una Golf nel traffico della tua città per non far tardi a casa ma un uomo che sa che gli ostacoli che evitava, oggi sono i suoi migliori amici. E quella musica da eroi glielo ricorda ogni volta che la sente.
Nell’iPod.

mercoledì 7 settembre 2016

Il re dei tavoli

In casa c’è un tavolo diverso da tutti gli altri tavoli. È il tavolo della cucina che non è un tavolo come gli altri.
Non è quello della tua stanza, dove provavi a fare le versioni in attesa della telefonata delle 19, quando il secondo della classe, non il primo, ti dettava la versione, “ma solo per controllare, eh?”. Era una telefonata veloce, al massimo venti minuti, perché poi alle 19.20 cominciava Happy Days.
Non è quello del salotto, il tavolo da pranzo, che nasce importante già di suo, ha sempre un centro tavola, un vaso di fiori, un oggetto prezioso, è un tavolo da domenica, e ha un nemico: il divano accanto dove fare la pennica dopo il terzo giro di Gran Premio.
Invece, il tavolo della cucina è un tavolo nudo, spoglio, pronto per accogliere tutto. È un tavolo “tabula rasa”, è il foglio bianco della tua vita. Si presta a  qualsiasi cosa, non solo ai preparativi del pranzo o della cena. Oltre al fatto che ci facevi i compiti già alle elementari aiutato da chi ci stava stirando i panni, quello era il tavolo dove hai giocato a tombola la sera di Natale, quando si andava a casa di nonna, in mezzo alle bucce dei mandarini, delle noci, ai bicchieri ormai appannati dall’unto del baccanale appena consumato.
È il tavolo da lavoro, dove puoi farci di tutto, spesso con l’attack, tanto se cade qualcosa: “che mi frega, è il tavolo della cucina...”
È un tavolo accogliente: a Elton John non pare vero di accomodarcisi da quando ha una famiglia, tornando a casa la sera.
Si può definire un tavolo davvero democratico, perché accetta tutti i tipi di discussioni, futili e importanti, anche perché è quello delle grandi decisioni, dei preventivi, dei documenti da leggere, sul quale puoi aprire le mappe (sì, quelle di carta, non quelle di Google) per decidere il viaggio della prossima estate, è il tavolo dei sogni, ma anche il tavolo delle ammissioni di colpa.
Senza dimenticare che questo tavolo si presta a tutto, anche alla seduzione: ce la ricordiamo tutti la scena de “Il postino sempre due volte” con Jack Nicholson e Jessica Lange che si rotolavano tra nuvole di farina, ringhi, e urla soffocate.
Quando devi fare qualcosa che lascia il segno, è a quel tavolo che devi pensare. George Clooney, potendo scegliere tutte le location possibili al mondo dove dichiararsi a quella che sarebbe poi diventata sua moglie, dove le ha fatto trovare l’anello? Sul tavolo della cucina!
Tra l’altro è il tavolo più pulito di casa, e ci tieni a tenerlo pulito, perché sporco è peggio di un letto sfatto, tanto da essere usato anche come tavolo operatorio per piccoli interventi chirurgici casalinghi (tipo alcool e cerotti).  
Personalmente è il tavolo dove tutto mi viene meglio, de se non ci metto il Mac è solo perché ho paura che si sporchi con i fumi unti della cucina appunto. Ma so che il giorno che lo facessi, mi verrebbe fuori il capolavoro che non sarò mai capace di scrivere...


PS: vuoi vedere che domani sposto il Mac?